22 RIVISTA POPOLARE voluttuose di una vita epicurea che non ammette troppo rigore di limite. Rimanevagli ritta l'architettura delle ossa, rivestita di poca carne; gli abiti attenuavano la impressione sgradevole di quelle membra macilenti , che parevano in procinto di disgregarsi, di staccarsi dalle loro congiunture. La fronte stretta; gli occhi cavi , luccicanti di ardore segreto ; a traverso l'epidermide delle mani le vene trasparivano scuricce. L'andatura stanca, lenta. debole; i gesti radi e tardi; le parole secche e pronte. La sua mente, incolta in fatto di studi, conserva \'a una grande lucidità in fatto di esperienza e di praticità: parlando italianamente spropositava, ma le sue parole, nel turbinio fosco degli svarioni, toglievano un impiccio, appianavano un ostacolo, trovavano con prontezza un rimedio a un male, imberciavano nel punto preso di mira. Ora si vedeva in giro pel paese, in mezzo ai suoi, come un re cm avessero tolto il trono. Gli amici lo conforta vano. e Date retta a me • gli diceva uno, battendogli confidenzialmente una mano su la spalla, e quando saranno saliti i sign01·i onesti il paese si accorgerà di avere fatto un buco nell'acqua. Non saremo qua noi a vedere? E nn altro: « Ma sicuro ! quella lì è una cosa c,~rta. Ci scommetterei il capo. Un terzo si ficcava nel gruppo con due forti gomitate, una a destra e l'altra a sinistra; quindi, abbassando la voce : e Sentite a me, e se mento eh' io non possa più mangiare paue. La nostra amministrazione è una ma• tassa arruffata, di cui nessuno, all' infuori del nostro Cavaliere , può trovarne il bandolo. Si provino tutti. Io sono qui, pronto a sostenere quello che ho detto. pronto a scoll'.!mettere. No? Eh'? Il Cavaliere, che aveva buon naso, a questo punto stimava opportuno di apparire modesto. e Ma che l Non dite delle corbellerie. In q t1esta città ci stanno delle persone che possono, meglio di me. amministrare gli interessi cittadini. E intanto, mentalmente, diceva a se stesso: e Lottate quanto volete Qui v'aspetto ! ♦ Gli amici veri del Cavaliere erano parecchi, ma più che amici essi erano, effettivamente, suoi confidenti in altre parole, i conclavisti di quel papa: difatti, benchè nel Palazzo di Città non ci fosse nessun coucla ve tutti quanti non si perdevano d'animo per cosi poca cosa, e di nulla nulla, serrati, con un parlottare fitto fitto, ecco ti facevano un concistoro. Tra questi emergevano tre come punte di un monte: Angelo Settini, Daniele Zugliette e Paolo Bonelli. Poichè il Cavaliere rappresentava la pietanza cucinata nella gran pentola nissena, questi signori, essendo a loro volta dei frammenti integrali di essa, ne formavano , a cosi dire, il contorno; tutto un servito di cattiva lega , a dire di taluni, impastricciato alla peggio, che puzzava di raffrigolato lontano un miglio, e che i cittadini non po vano nè ringozzare nè ringollare, per quanta forza spremessero dalle mascelle strette e per quanti soprassalti dessero al-nodo della gola. Tutti tomi di prima bussola, pei qnali si avvicinava l'ora di tombolare giù dalle scale del Municipio; tutti parolai che avevano promesso valentie da Cesare e Pompei, e che alla fioe del salmo avevano pensato solamente ad avvocare la oro causa, tenendosi bordone l'un l'altro, succhiando il sangue ai paesani. Don Angelo, un coso molto malandato anche lui, appariva come un'altra macchina ambulante di ossa, accuratamente celata dai panni; la cera di un pallore scuro, tendente alla tinta abbronzata; la parola fioca. Cosi cagioooso all'aspetto, aveva sempre l'andatura dinoccolata. La copia della vivacità che inaridiva in tutta la sua carne alquanto disseccata era proporzionata allo ardore insaziabile dell' ambizione che gli bruciava in ogni fibra, in tutto il sangue. Egli voleva e~sere tntto: direttore di qualsiasi direzione, presidente di qualsiasi accademia, capo di qualsiasi partito; la ingordigia dei frutti succosi della vanità, specie di quella vanità che si dimena nel circuito dei pettegolezzi paesani, lo teneva sempre in sollucchero, con un'ansia che lo uccideva. Non avendo studiato mai, rimediava alla ignoranza con qnell'astuzia da fistolo che soltanto il sangue degli avi può dare, trasmett.endola con le leggi di ereditarietà.. Da questo armeggione il Cavaliere ne traeva profitto non poco. « Angelino, non sappiamo come possano andare le cose. Quel don Michele ce lo dobbiamo tenere amichevolmente. Capisci? Egli dispone di molti voti.• E aveva ragione. Fiochè uno ha denti in bocca, e' non sa quel che gli tocca. Don Angelino lo capiva benissimo, e sapeva tenere a bocca dolce quanti gli capitassero tra i piedi; però sopra tutto, gli premeva di pensare per sè. e Cavaliere, io non voglio essere dimenticato. « Come sei minchione I Sarai assessore. Te lo dico io, e basta. Il Cavaliere era di stocco: quando prometteva, ei non era muso da pulirsene le scarpe, no, a qnalunque costo. Era benvoluto da molti per questo. Don Daniele, poi, con quell'aria di me ne impipo, non s'impipava di niente. Di statura regolare, di colorito bruno, di fisonomia arcigna; baluginando la pnpilla nel bianco dell'occhio, assumeva l' aspetto di un tristo, accasciandosi sotto il peso di una contrarietà assumeva l'aria d'un ammalato affetto da ipocondria. Dinanzi ai credeozoni del primo cielo, egli ·amava di tenersi celato come la notte o di apparire col sembiante di colui che non si cura di nulla, in realtà si curava di molto, temendo potessero farlo calandrino, urgendogli di arraffare qualche cosa, e spiava per ogni spiraglio, e ficcava il naso per ogni buco. Per lo più assaliva il Cavaliere con violenza. e Che intendi di fare ora? " Quello che si può. « Carmelo Bagelli e Ciccio Cotto sono dei nostri. E per me? E quell' affaruccio? e Como sei minchione ! Non ci pensare. Ma l'enigma paesano di questo partito consisteva tutto in don Gigi Bosetta, brav'omo, d'indole mite, di
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