184 RIVISTA POPOLA.RE DI POLITICA., LETTERE E SCIENZE SOCI.ALJ LARIFORMA DELLSEOCIECTOÀOPERATIVE (Continuazione e fine, v. Num. precedente) A questi concetti giunse anche la Commissione per la riforma delle società cooperative, nominate dal Governo nel 1896. E nel progetto di legge da essa compilato così si legge all'art. 1: • La so- • cietà cooperativa è composta di un numero il- « limitato di soci. Essa può esercitare qualunque e industria o commercio, purchè lo eserciti a pro- « fitto de' suoi cooperatori soci e non soci. I soci e non possono ritrarre dal capitale conferito un e profitto superiore al 5 OtO sul valore nominale « delle azioni o delle quote conferite, dedotti i vere samenti non ancora eseguiti. » (1). Ma chi va considerato come cooperatore? L'articolo riprodotto non ce lo dice, il complesso del progetto non ce lo fa comprendere, la relazione - pur tanto perspicua e dotta - non c'illumina al riguardo. Nella pratica cooperativa - sta di fatto - non tutti gli affari fatti colla società danno diritto alla partecipazione degli utili. Nelle cooperative di consumo sono ammessi al riparto i consumatori, sono esclusi gl'im piegati nell'aziend3;1 i fornitori e i produttoei. Questi ultimi invece partecipano agli utili nelle società di produzione, che escludono i consumatori. Nelle società di credito gli utili sono ripartiti fra coloro che domandarono credito, quindi in generale, fra gli scontisti. Perchè ciò? Pel fatto che la cooperazione è - dal punto di vista economico - una ri 1rnione personale di funzioni produttive solo per qualche singola fase del ciclo produttivo. La società di consumo elimina il dettagliante e vuol giovare al consumatore; quella di produzione toglie di mezzo l'intraprenditore per giovare al lavoratore; e quando le due società si trovano di fronte sorge l'opposizione d'interessi e la lotta (2). Non è quindi possibile estendere lo scopo sociale ad altri all'infuori dei consumatori nel primo caso, dei produttori nel secondo, ammettendoli alla partecipazione dei profitti. E se - per far ciò - non c'è una ragione teorica, non c' è nemmeno una ragione pratica: la società di consumo per allargare la cerchia dei suoi affari - e godere dei vantaggi che tale allargamento, fino ad un certo limite, porta seco - ha bisogno di clienti, e questi deve allettare, non i fornitori cli cui avrà sempre dovizia. Analogamente nella cooperativa di produ- (!) Avv. C. Vivaute. Relazione sulla riforma delle socie~à cooperatioe. Torino 1897. Il carattere corsivo non è nel testo del progetto. (2) E noto l'antagonismo esistente in Inghilterra fra cooperative di consumo e cooperative di produzione, ed i lamenti di sfruttamento innalzati dagli operai impiegati dalle cooperative di consumo, che producono molti articoli per proprio conto. Richiamo l'attenzione sul fatto che le ~ooperative di consumo rimangoco sempre tali, quand"anche esercitano industrie per loro conto, porché cio che producono rappresenta un articolo di consumo, e non una merce. (Es: società di consumo produttrice di pane). zione, il cui scopo dev'essere quello di produrre bene e a buon mercato, è necessario interessare all'impresa. gli operai, non i clienti pei qualì sarà. sufficiente l' avere un prodotto soddisfacente per qualità e prezzo. E la società di credito, quando fa prestiti ai non soci, quando cioè ha capitali esuberanti, non ha certo bisogno di aumentarli con depositi o prestiti, ma cerca chi domandi a lei credito: scontisti specialmente, anzi buoni e solvibili scontisti. Sorge quindi chiaro il concetto di cooperatore, cioè di colui che - pur non essendo socio - ha diritto al riparto degli utili sociali, che ha cooperato a produrre: cooperatore non può esser considerato se non colui che compie colla società cooperativa affari della stessa natura cli quelli che essa compie normalmente coi soci, e che ne costituiscono l'obbietto principale, lo scopo predominante (1). Occorre ora determinare la misura e la base secondo cui va effettuato il riparto degli utili. La commissione del 1896, di cui ho già ricordato l'opera, credette opportuno di lasciare a questo riguardo la maggior libertà agli statuti e all'assemblee sociali. Solo, freno indiretto, sancì che l'interesse annuo per le somme effettivamente conferite dai soci non dovesse oltrepassare il cinque per cento; e questa aliquota potrebbe forse ora· - migliorate le condizioni economicl1e - ridursi con vantaggio al 4 o 4,50 (2). E fu bene, perchè la diversità di trattamento .fra soci e non soci nella ripartizione ciel profitto rafforza singolarmente la compagine finanziaria della cooperativa, che con saggie deliberazioni può servirsene « come di uno strumento regolatore per « accrescere il numero degli azionisti o dei clienti, • secondo che abbisogna di capi tal i o di affari. .. « il rimedio contro ogni abuso starà nel libero ac- • cesso e recesso degli azionisti • (3). Determinato in questo modo l'interesse del capitale conferito dai soci, e reso impossibile di fatto che i socì si dividano una troppo grande parte degli utili sociali, impedita cioè la degenerazione in impresa speculativa non c'è ragione perchè la legge prescriva alle cooperative un sistema di di visione d'utili piuttosto che un altro, indichi una base, e ne interdica un'altra. È grandemente opportuno che la pratica cooperativa possa - nel suo libero svolgimento - trovare ed adottare (1) Tali non sarebbero, per esempio, le operazioni di credito passivo (depositi, conti correnti, ecc.) fatte da una banca cooperativa, perché lo scopo precipuo che essa si propone è di facilitare il credito ai soci. (2) Natur~lmente quest'interesse è del tutto indipendente dai dividendi che al socio possono spettare come cooperatore, cioè come cliente o come operaio della sua società. Altro freno indiretto ma efficacissimo sarebbe il sanzionare l'obbligo nelle cooperative di ricevere in conto di azioni questi dividendi spettanti ai cooperatori, che in tal modo potrebbero senza sacrifici diventar soci e goderne i vantaggi. (3) Avv. C. Vivante. Relazione sulla rifo,·ma delle società cooperatioe. Torino 1897.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==