'l{_IVISTA POPOLARE Dl POLlTlCA LETTERE E SCIENZE SOCIALI ~immisenu dall'aggio del frumento, che oscilla fra i 4 o i 5 tumoli a salma, dall' aggio di 2 soldi a lira per un mese; questi contadini che ebbero nell'età di mezzo condizioni più vantaggiose nei contratti delle mez;,;adrie e delle colonieparziarie, rkhiedono una pronta legislazione, che li te lga dalla bolgia infernale in cui gemono e esinaniscono. Nè con ciò è detto ancora tutto. Per interessarli davvero e difimtivamente alfa vigorosa riforma bisognerebbe loro mostrare che il miglioramento della loro condizione oltre che alla regolarizzazione dei contratti agricoli si riallaccia direttamente alla pronta ricostituzione di quella proprietà demaniale del comune, così violentemente usurpata e distrutta dallo Stato, dalla Chiesa e principalmente dai baroni. Poche grandi famiglie se l'infeudarono prima, e la mutarono in proprietà assolutaesclusiva, allodiale poi, dopo la Costituzione del 1812, come chi esercita ìl suo più santo dei diritti. I contadini, come è risaputo, furono proletarizzati e oggi essi sono semplic~ mente gli ex-utilisti feudali delle foreste, delle ghiande, dei pascoli. Essi non hanno più dove legnare, nè dove nutrire il bestiame, con cui una volta avevano latte, burro, e formaggio con che nutrirsi, lana per fare calze, berretti e stoffe comuni, stallatico con cui concimav:ino le terre comuni o vendevano per comprarne nell'inverno il fieno per il bestiame. Ma se la forza delle cose dissolvette questa base economica del proletariato, bisogna pur dire che questa terra, già di proprietà collettiva dei contadini, ritornerà alla collettività per quella stessa legge storica per la quale i contadini ne furono espropriati. Dott. LoNcAo ENRICO. ~ Per Pietro Giannone In vari giornali, con vivezza di frasi, si sono dibattute ultimamente talune questioni, cagionate dagli errori in cui rimane ancora avvolta la nostra storia. I quali, lo ripetiamo, traggono origini da quell'adulazione nefanda e degeneratrice, che in Italia è un vieto e inveterato costume; e per qaanto da' documenti si voglia trar luce, i propositi e le intenzioni del volgo degli scrittori non oltrepassano il limite delle piaggerie, e quello di falsar tutto. Niccolò Machiavelli insegnava: « Gli è ufficio d'uomo buono quello che per la malignità del tempo e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo agli altri, acciocchè, rendono molti capaci, alcuni di quelli più amati dal cielo possa operarlo » Ma questo non accade, e invece da noi costantemente si apprese, da quando l'Italia segnò tristi e ree sorti, a snaturare la verità de' fatti, e sempre per reverenza al potere regio nelle sue manifèstazionLdispotiche. t 1,. Riandiamo la questione Giannone. Nel 1852, pubblicandosi a Torino, pe' tipi Cugini Pomba e Com., le Opere inedite di Pietro Giannone, rivedute ed ordinate da Pasquale Stanislao Mancini, nelle quattro pagine premesse alle stesse e sottoscritte da La Società Editrice, furono rivelate talune verità, che, dopo il corso di 47 anni, nell'Italia unificata da otto lustri, non si possono più ripetere, perchè la magistratura, ignorante della storia, reputa un delitto la rivelazione smcera, e si affretta a compiere il sequestro di un opuscolo testè uscito a Milano col titolo: L'arresto e la prigionia dellostorico Pietro Giannone. Le ragioni rivelanti sono la offesa a Carlo Emmanuele III re di Sardegna. E giacchè questa e non altra è la offesa, e perchè non resti offesa o almeno adulterata la storia, conviene che rifacciamo i nostri passi sulla stessa, e si cominci dal condannare Leonardo Panzini, che fu ccntemporaneo del Giannone, e ne scrisse senza alterazione la vita. Di Pietro Giannone nel 1863 parlò liberamente il più rinomato filosofo e storico della nostra età; parlò Giuseppe Ferrari nelle lezioni dettate all'Istituto Superiore di Milano, che comparvero riunite nel volume La menft" di Pietro Giannone, impresso nel 1868 dalla Tipografia. del Libero Pensiero. In esse per la biografia non manca la parte essenziale, quella degli ultimi 12 anni, della vita del grande scrittore, che tanto tor mt nto gli recarono lasciato lì nel fondo di un'oscura prigione, e afflitto dal pensiero funesto della carcerazione del figlio, dapprima tenuto con lui, poi reso libero. Il Giannone nel 1723,. aveva pubblicato in Napoli la Storia Civile del Regno di Napoli, che gli fruttò congratulazioni, perche, scrive il Settembrini, arme più formidabile per difendere la libertà civile del Regno e la regale giurisdizione, e fiaccare la baldanza della Curia ']{_omana. Però fra tante congratulazioni allora il dottissimo avvocato Gaetano Argento abbracciandolo gli aveva detto: Pietro mio, ti hai messo in capo una corona, ma di spine ( 1). La corona di spine fu la persecuzione atroce dei frati, dei preti, dei gesuiti e dello stesso governo, che secondò i desideri di costoro. Preso d'occhio dalla plebe, come autore_ di eresie, dovette presto mettersi in salvo per la. via di' Manfredonia e di Trieste, in Vienna; e il freddo accoglimento, anche da parte dell'imperatoré ;•gli fece trovare un sollievo nel Principe Eugenio di Savoia e in Pio Nicolò Garelli. La congregazione del Santo Uffizio condannava il libro e la eresia dello scrittore, e i due amici mettevano ogni zelo a dissuadere l'imperatore dal ritener vere quelle accuse, e facevangli h:ggere la Storia,. che restaurava il potere civile contro le usurpazioni del1'ecclesiastico. E visse a Vienna tranquillo e onorato più di due lustri, e coll'.Apologia, e con altri scritti attenenti a difendersi dalle accuse di irreligione potè convincere gli uomini onesti, non giungendo a frenare la ira sacerdotale, che lo fulminava da Roma, da Napoli. da Torino. E questi scritti postumi alla Storia sino al Triregno sono l'aperta confessione del filosofo, che, liberamente~ procede e svolge i suoi più alti concetti contro le male arti. Lasciata. Vienna, ridottosi a Venezia, non cessarono le maligne in~inuazioni gesuitiche, che lo volevano in poter loro e bruciarlo. Non si attenne al consiglio del Trivulzio, che in Venezia dkevagli, e ripetute volte glielo espresse: Non fidatevi. Da Venezia, presagendo tempi migliori, sperava ritornare in Napoli sotto gli auspici di Carlo III, ma anche questo ottimo Principe cedette alle calunnie sfrenate dei preti e dei frati, e fu chiusa al Giannone la via del ritorno. In Venezia, ove aveva richiamato il figlio Giovanni, dopo un anno di dimora, la notte del dì 13 settembre 1735, legato dai birri dell'Inquisizione di Stato, messo in una barca che fece il tragitto del Po, fu posto a terra nel tenimento di Ferrara, che era di dominio papale. Preso altro nome, fuggì presto a Modena, a Milano, indi a Torino, donde fu cacciato. Dopo alcunì mesi di trambusti, nel dicembre trovò modo di ricoverare in Ginevra, festevolmente accolto da quel libero popol0,- che ·Favrebbe;ospitato con onore fino alla morte. Dal dicembre alla Pasqua (1736) il Giannone dimentica le due parole, Non fidatevi, del Principe Trivulzio, e il tradimento compie la vittoria agognata dalla chiesa di Roma. Meglio che noi, qui parli Carlo Botta, storico rinomato, di nascita piemontese. Egli dice: « Il papa riconobbe nei Principi della casa di Savoia a perpetuità la facoltà di nominare ai benefici concistoriali nelle provincie di Casale, Acqui ed Alessandria, nella Lomellina e nel Val di Sesia. Rinunziò ancora il pontefice al diritto di spoglio di cui godeva alla morte dei beneficati, a quello di gravare i benefizi di pensioni, a quello finalmente di incamerare i frutti durante le vacanze )>. « La lodevole condiscendenza di Roma pel raccontato negozio ebbe origine già insino dal 1738, oltre le ragioni di Stato, le istanze del re e le divozioni di Ormea e di Balbo da una brutta condiscendenza del governo (1) Lezioni di Letteratura Italiana, voi. III, pag. 27; Napoli, Morano, 1872.
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