Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali - anno II - n. 10 - 30 novembre 1896

\ I I RIVISTPAOPOLARE DI POLITICA LETTERE E SCIENZE SOCIALI Direttore: Dr NAPOLEONE COLAJANNI DEPUTATO AL PARLAMENTO ITALIA: anno lire 5; semestre lire 3 - ESTERO: anno lire 7; semestre lire 4. Annoli. - N. iO Abbonamentopostale Roma30 Novembre1896 Sommario. LA RtvISTA - Un,t partita di giro o le menzogne convenzionali della monarchia. Dr. N. CoLAJANN-I Liquidazione coloniale. AcHJLLEI.ORIA- Organismo e società. B. SALEMI- " Viva Cuba libera ,,. CESARECASTELLI- Oh le classi super'iori I.. Lo Zonco - La Sicilia nel 1801. IL Re, ( dal Numero del I 5 marz.o I 896). MARIOPILO - Piccoli pensatori. LUIGIALBERTOVILLANIS- I.a funzione sociale dell'arte. !iperimentalismo Sociale - Scioperi e boicoltaggio. Notizie Varie - L'esposizia11ed'Igiene a Varsavia - Disi11/ez.ionedei vagoni - I crisantemi - I giardi11ioperai. Recensioni - Prof. G. S. Del Vecchio: Gli analfabeti e le 11ascite - Gerolamo Rovetta: Il lenente dei lancieri. Ancora una volt.a tor-niamo apregare vivamente tutti coloro che non abbiano pagato l'abbonamento, a volersi mettere in regola con l'Amministrazione. Spedire Vaglia o Cartolina-Vaglia aff'on. Dr. Napoleone Co• lajanni - Roma. ~~'-../'../'-.../ UNA PARTITA DI GIRO o le menzogcnoenvenziodnealliamonarchia. La prima seduta della Camera dei deputati - ed è la sola di cui possiamo rendere conto - ha presentato un'animazione inattesa: amici ed avversari del ministero il giorno 30 si sono presentati abbastanza numerosi ; e del coraggio e delle intenzioni degli avversari: si avrà un' idea adeguata quando si saprà che si è ripresentato nell'aula l'on. Crispi, sereno, tranquillo, altero - quasi in attesa che il Parlamento per le glorie della quistione morale e per quelle cruenti di Amba Alagi e ·di Abba Carima gli voti la corona civica. A votargliela non sembrano disposti i deputati nella loro grandissima maggioranza : tre o quattro soltanto dei suoi antichi amici - e diamo lode sincera a questi pochi della fedeltà al loro Capo nell'avversa fortuna - andarono ad ossequiarlo. Gli altri lo scansarono come un appestato. Il fatto non è nuovo. In altra parte della Rivi'sta si parla della iniziata discussione sulla politica africana; qui vogliamo soltanto far menzione di un disegno di legge in principio di seduta presentato dal Presidente del Consigio. L'on. Di Rudinì, adunque, in ossequio all'art. 21 dello Statuto presentò il progetto di legge per dare l'appannaggio di un milione al Principe ereditario ; in pari tempo annunziò che il Re avrebbe versato ogni anno un altro milione nella cassa dello Stato. Per fare una cronaca esatta e completa dobbiamo osservare che la presentazione del disegno di legge per l'appannaggio fu accolta da rumori vivi e da commenti piccanti all'Est?·ema. Imbriani, Colajanni, Costa e parecchi altri gridarono: male ! male ! e protestarono contro la iscrizione nel bilancio di questa insidiosa pa1·tita di giro. Le esclamazioni che vennero dalla Montagna non destarono alcuna reazione nelle altre parti della Camera ; e i monarchici più sfegatati assai scarsi per numero e per ardimento, si limitarono a mostrare il gaudio e l'ammirazione per la generosità del Re con un tiepidissimo tentativo di applauso, che, forse, non sarà stato avvertito neppure dalle tribune. Tutto sommato l'entusiasmo per le istituzioni nel termometro politico segnò zero il giorno 30 1ovembre nel paese di Montecitorio. Ci spiegamo facilmente il fenomeno. I deputati tornati di fresco in Roma hanno ancora viva innanzi agli occhi l' immagine delle miserie del popolo e trovarono che troppo forte sarebbe stato il contrasto se avessero accolto diversamente l' annunzio di un così forte nuovo aggravio pel bilancio dello Stato. Pensarono, altresì, che la lista civile è già tanto grassa che un ulteriore impinguamento sarebbe riuscito a discreditare di molto le beneamate istituzioni. Quando si ricorda che la regina d'Inghilterra - cioè la regina della nazione più ricca di Europa e che ha sotto di sè pili di 300 milioni di sudditi - ha una lista civile di nove milioni all'anno, mentre quella del Re della povera Italia è di oltre

182 RIVISTA POPOLARE DI POLITICA LETTERE E SCIENZE SOCIALI quattordici milioni si comprende che l' aumento di un altro milione nelle condizioni presenti nostre sarebbe stata una enormita. E si spiega l'atto del Re. L'apparente generosità non è in fondo che una misura di prudenza nello interesse delle istituzioni. Ma se il Re restituisce con una mano ciò che prende coll'altra perchè quel disegno di legge presentato dal Presidente del Consiglio? La ragione è chiara: lo Statuto lo prescrive tassativamente! Per non fare sentire ai contribuenti in modo sgradito le conseguenze del matrimonio del P~incipe ereditario, quindi, si è dovuto ricorrere ad una piccola menzogna convenzionale e stabilire una piccola partita di giro nel nostro bilancio. Alla buon' ora: i ministri del Regno d' Italia si sono rammentati in questo caso che c' è uno Statuto da rispettare ! Senonchè il giochetto, la menzognetta può nascondere dei pericoli: la partita di giro può essere insidiosa. Infatti l'appannaggio di un milione al Principe rimane consacrato da una legge, e il milione ver1'à pagato ogni anno puntualmente - in oro e senza detrazione di ricchezza mobile. E se il Re obbliasse - honny soit qui mal y pense ! - la promessa sua annuale restituzione? C'era un modo spiccio e semplice per conciliare capra e c\l,voli, per mettere di accordo il rispetto dello Statuto col desiderio di non rendersi odiosi al popolo diminuendogli la razione di pane, per provvedere sfarzosamente al mantenimento della famiglia dell'Erede del trono; presentare cioè contemporaneamente il disegno di legge dell' appannaggio ed un altro col quale il Re rinunziava ad un milione della lista civile. Noi siamo sicuri che se ciò non si fece si fu per semplice dimenticanza e che il Re per eliminare ogni irriverente sospetto sulle sue buone intenzioni farà fare una errata c01·rige alla seduta del 30 novembre: rinunziera ad una buona parte della sua troppo vistosa lista civile. Così si rientrerebbe nella realta e ci avvicineremmo alla giustizia, per quanto a passo di formica. Questa rinunzia ad una parte della lista civile è stata troppe volte annunziata dai monarchici zelanti; ora si presenta propizia l'occasione per tradurla in fatto. LA Rt\'lSTA Per mancanza di spazio siamo costretti a rinviare al numero prossimo la risposta all'articolo di Merlino •• Democrazia e Sotiialismo ,, pubblicato, nel numero passato, in questa Rivista. LIQUIDAZIONE COLONIALE. Della pace conclusa tra il Re d'Italia e il Re di Etiopia per ragioni indipendenti dalla mia volontà - che si riassumono nell'epoca della pubblicazione della Rfrista - arrivo a parlare in ritardo qui, dopo che i giornali quotidiani hanno, come suol dirsi, esaurito l'argomento. Ciò non ostante me ne intrattengo per procurarmi una legittima soddisfazione, e per mettere in sull'avviso i lettori della Rivista su ciò che ci riserba l'avvenire in Africa per trarre utili insegnamenti dal passato e indicazioni opportune pel futuro. Oggi nelle classi dirigenti si contano numerosissimi gli avversari della politica coloniale a base di violenza e di conquista militare. Ma del senno di poi son piene le fosse; sia dunque consentito a me che da undici anni combatto contro la <lisa strosa e scellerata intrapresa africana, nella Camera e nei libri, nelle riviste, nei giornali e nei comizi, di ammonire gli avversari del partito repubblicano ad essere più cauti per lo avvenire nel trattarci da utopisti ( 1). In questa occasione, come in cento altre, la ragione, l'avvedutezza, il senno politico stavano dalla parte nostra : i fatti lo hanno dimostrato. Nè la discussione oggi ba valore retrospettivo soltanto, perchè s'illudono - e vorrei ingannarmi - coloro che credono, che verremo via dall'Africa o che ci ridurremo al semplice possesso di Massaua, ritornando al trattato Hewett. Quest'ultima ipotesi sarebbe la meno dannosa se ,realizzata: soddisfarebbe - in misura omeopatica - la nostra vanita con poca spesa e con pochi pericoli. In quanto agli utili probabili sono fantastici e lo dimostrai nel mio libro sulla Politica coloniale. Se, come si asserisce, ci sono grandi ricchezze nel Sudan o nell' Harrar, esse non prenderanno mai la via di Massaua. Al nostro scalo nel Mar Rosso non sarebbe destinato che il commercio del 'l'igré, ricco di ambe brulle e desolate. Ma il possesso di Massaua ci indurrebbe ad una ripresa della guerra contro l'Abissinia? Non lo credo. I politici matti e delinquenti non pullulano facilmente anche tra le nazioni smemorate e degenerate; e dalle follie nuove, se conserveremo un briciolo· di buon senso, saremo trattenuti dallo (:) Nel 1885 appena cono~ciuta la spedizione per Massaua iniziai una vera campagna contro la nostra politica colonie.le nel Fa,cio dtlltt Demoe,.azia. );l'el ISSGdurante l't1gitazicne elettorale in diversi discorsi tenuti nella provincia di Caltanisetta e a Sciacca la combattei i tornai a combatte1·la nelle conferenze di Fa,.nza a di Firenze nel lf'Si e nei <liRco..si eleuorali cli Palc1·mo, cli Catania, di Girgenti e di Caltanise11n nel 1890. :scii' Epoco, nel Secolo e nel Me,saggero ~astenni val'ie pclcmiche contro l'intrapresa africana - una vivacis sima contro Ja T,•ibuna; e i miei convincimenti incrollabili e documentati ir articoli pu;,hlieati nella Nouoelle Jleoue di Parigi, net Kleine.Journal di Berlino nella Die Ztit di Vienna e in un libro pubblicato in Palermo nel 1892, La politica Coloniale. Editore Clauaon.

RIVISTA. POPOLARE DI POLITICA LETTERE E SCIENZE SOCIA.LI 183 · sviluppo eh é destinato a prendere l'Impero etiopico precisamente a causa della guerra ingiusta mossagli da noi e terminata col nostro danno. Perciò affermai, che il semplice possesso di Massaua rappresenterebbe una velleità coloniale poco costosa e poco pericolosa. * * * La pace di Adis Abeba ha destato in Italia gioie sincere e dolori ineffabili. Esultano le donne d'Italia per la prossima liberazione dei loro diletti dopo tante trepidazioni : esse non furono mai rappresentate da certe famigerate sgualdrine e dai sconsigliati guerrafondai. Ciò che esse pensavano della guerra nell'Eritrea lo fecero intendere colle dimostrazioni di Pavia - di quella Pavia, che dette alla patria Adelaide Cairoli. Alla gioia delle madri, delle mogli e delle sorelle dei prigionieri fa riscontro il dolore e l' indignazione dei guerrafondai. Ci sono tra loro pochi idealisti monarchici e megalomani che disinteressatamente propugnano ancora la 1·evanche; ma la massa è di marundeurs che la guerra a fondo predicano per riafferrare il potere, pe1·vendere muletti, elmetti e scarpe e provvigioni di ogni sorta, per far fare rapida e brillante carriera ai traineurs de sabre, per giuocare colla certezza di vincere in borsa quando si perdeva sul campo di battaglia. Questi tali sono inconsolabili ; e ne hanno ragione. Cercano conforti e li trovano - magri assai! - nelle critiche di cui tempestano l'odiato ministero che ha concluso la pace; tra le quali critiche una -ce n' è, che ha le apparenze della giustizia. I guerrafondai rimproverano all'on. Di Rudinì di non avere conchiuso la pace all'indomani di Adua e di essersi rimangiata la fierezza ostentata otto mesi or sono nelle istruzioni date al maggiore Salsa. Il rimprovero è in parte meritato dall'atuale Presidente del Consiglio, che appena arrivato al potere non ebbe il coraggio di prendere il toro per le corna e di concludere la pace subito. Ma l'on. Di Rudinì potrebbe rispondere che allora illudevasi di potere ottenere migliori condizioni e che non è colpa sua se non riuscì. Meglio ancora: può invocare l'opportunità politica. Se in Marzo avesse accettato le condizioni accettate oggi, quando era vigorosissima la campagna sleale e irragionevole della così detta pace con onore è. sicuro che sarebbe stato battuto in Parlamento e il Re non gli avrebbe accordato la facoltà di sciogliere la Camera. Il tempo trascorso da marzo ad oggi ha rischiarato le menti ed ha portato giudizio; tanto che ciò che allora avrebbe determinato la caduta del ministero oggi lo consolida e gli assicura anche i voti cli alcuni deputati che gli furono avversi sino a jeri. Del ritardo, adunque, veri responsabili sarnbbero quelli stessi, che lo deplorano; ne sono responsabili quei fieri custodi della dignità della patria, che pur di rendere impossibile la pace all'ultima ora hanno inventato l'odiosissimo supremo oltraggio, tentando disonorare i poveri pri • gionieri e additarli al ludibrio delle genti come tanti collegiali usciti da un istituto diretto da Padre Cerasa.... Sciagurati ! * * * Le altre critiche valgono quanto coloro che le accampano, e confermano che il trattato di Adis Abeba rappresenta il meglio che si poteva ottenere nella disgraziata condizione in cui posero l'Italia i passati governanti. Si deplora la rinunzia al trattato di Uccialli. Ma vi si poteva insistere quando da noi era stato falsificato nella parte essenziale ? Potevasi legalmente domandare il rispetto, quando una delle parti a tempo debito lo aveva denunziato adesso eh' era scaduto da due anni ? Il diritto ci stava contro ; e la forza ci mancava per sostituirla al diritto. La quistione dei confini indelimitati è una vera quistione di lana caprina. Lasciamo da parte i precedenti diplomatici nelle trattative tra Stati euro- . pei; e' è di meglio. Il diritto non ci autorizzava ad insistere sul colfine Mareb-Belesa-Muna perchè - lo ha dimostrato all'evidenza la Corrispondenza Verde in una serie di buoni articoli basati sui documenti ufficiali; e la dimostrazione ha ripetuto alla Camera l' on.DalVerme - Re Menelik prima dell'ultima guerra non ce l'aveva mai voluto riconoscere. Eppure egli vittorioso a noi vinti oggi ce lo ha lasciato e dovrebbero essere contenti coloro che col Franchetti s'illudono sul valore delle terre rimaste in nostro possesso. Nè la concessione nasconde con insidia: se Re Menelik dalla delimitazione volesse trarre argomento per una nuova guerra si darebbe a conoscere per un senza cervello, riserbandosi di provocarci dopo che si sarebbe privato del pegno prezioso dei. prigionieri e ci avrebbe dato il tempo per la preparazione. Ora il Negus Neghesti si è mostrato - e dovremmo saperlo - politico abile ed avveduto quant' altri mai. Che dire dell'indignazione - alla quale nessuno crede - di cui fanno mostra i guerrafondai per il milione di piì1 o di meno da pagare a Re Menelik pel mantenimento dei prigionieri ? Se altro non vi fosse, questo dato basterebbe per illustrare la mala fede dei critici. Rimpiangono la maggiore, ed anco ingiusta spesa, di uno o due milioni coloro che ne buttarono parecchie centinaia e che sarebbero disposti a far soffrire la fame ai nostri lavoratori, pur cli spendere un'altro mezzo miliardo in Africa!. ..

RI'VISTA.POPOLA.REDI POLITICA.LETTERE E SCIENZE SOCIA.LI * * A parte il danno materiale, eh' è stato enorme in questi undici anni, ciò che ci nuoce è la disfatta morale che ci ha procurato la politica coloniale. E non alludo a quella perdita morale che consegue e deriva da una battaglia perduta e di cui è facile rilevarsi ; alludo, bensì. alla disfatta morale che abbiamo subito nel confronto tra l'Italia e l'Abissinia: per accortezza, lealtà, sincerità, sobrietà di linguaggio, fortezza di atti ed equanimità è innegabile che i nostri avversari si sono chiariti e provati di gran lunga superiori a noi. Questa sconfitta che i barbari infliggono ad uno stato che si crede civile deve formare il nostro rammarico. Abbiamo bisogno di una rivincita ; ma non è la guerra, che può procurarcela: ci · potrà venire soltanto dalla nostra riforma interiore, che deve cominciare dalla perfetta conoscenza cli noi stessi, che dobbiamo acquistare. In quanto alla rivincita armata e violenta non è d'uopo spendervi molte parole. C'era il giudizio del Generale Primerano - altra volta qui i'iportato - che escludeva la possibilità di una nuova guerra per lo stato di disorganizzazione e d' impotenza in cui si trova il nostro esercito, lo ha completato l'amico Guglielmo Ferrero col suo eccellente articolo nel quale espose le ineluttabili ragioni psicologiche, che resero inevitabile il disastro di Adua. La diserzione degli Alpini - le truppe scelte destinate all'Africa - e lE, loro dichiarazioni di Poschiavo dovrebbero aprire gli occhi ai ciechi guerrafondai sullo spirito dei soldati. La verità indiscutibile è che all'esercito mancava in Africa la forza morale: quella forza morale che a giudizio dei più grandi capitani - da Federico II a Napoleone I a Garibaldi - costituisce il primo fattore della vittoria; quella forza morale che spiega e irradiò l'epopea garibaldina. * * ll trattato cli Adis Abeba fu quale poteva essere, migliore di quello che potevamo attendercelo e a Re Menelik dobbiamo riconoscenza inoltre non per le condizioni fatteci, ma per averci risparmiato un pericolo : quello di cedere i prigionieri al papa. Chiusa la prima fase della potitica coloniale nostra con tale trattato noi dobbiamo tirare le somme e vedere ciò che ottennero coloro, che ne fu- !'Ono i promotori. Volevano distrurre l'indipendenza dell' Etiopia; volevano dare l'aureola della gloria all'esercito ; volevano dare una corona imperiale a Re Umberto. Ebbene a che ne siamo ? Ad avere conseguito fini perfettamente opposti. In quanto all'Abissinia si lasci la parola ad un giornale guerrafondaio per eccellena, che ha scritto ali' indomani della pace": Venti ani fa Menelik era un povero diavolo di capo-tribù, che andava a svegliar rJecchi la notte per farsi imparare il meccanismo di un fucile. Noi gli abbiamo dato le armi ; Gli abbiamo dato l'impero ; Gli abbiamo dato la vittoria; Abbiamo riconosciuto l'indipendenza del suo paese. Il capo-tribù è divenuto il sovrano d'una grande potenza, la quale ha preso il posto del!' Italia. Proprio cosi! Ma la verità non è stata detta che a mezzo ; il resto sta qui: Crispi il grande creat01·edi pat1·ie, scovò Menelik, lo armò e lo incoraggiò e lo fece conoscere all' Europa durante il suo primo ministero. Crispi durante il secondo per liberarsi lui dall'incubo della quistio~e morale che lo inseguiva inesorabile, somministrò la occasione al Re Barbaro di divenire potente e temuto. Questo primo risultato fa intendere quali poterono essere gli altri. L'esercito aveva ardente desiderio di rifarsi la gloria perduta a Custoza; ed ebbe Dogali, Amba Alagi ed Abba Carima. Si voleva dare lustro alla Monarchia e le si tolse ogni prestigio : fu Crispi a telegrafarlo a Baratieri. Si volle dare una corona imperiale a Re Umberto e colla solita imperdonabile leggerezza e fatuità dei passati governanti glie l'assegnarono sulle medaglie commemorative delle campagne d'Africa. Ma di quella corona il Re non potrà dire: Dio me l'ha clata, guai a chi la tocca! Essa non fu mai vera; e se vera fu, oggi si è tramutata in una corona di spine. La lezione e' è stata per tutti ! Dr N. CoLAJANNI. P. S. - Correggo le bozzedi stampa all'indomani del primo giorno della discussione delle iuterpellanze sull'Africa e sento il debito di rilevare che fu davvero esauriente la dimostrazione fatta dall'on. Luchino Dal Verme sull'impossibilità dopo Abba Garima, nella primavera scorsa, di ricominciare la guerra per prenderci Adua quale mezzo per costringere Menelik a restituirci i prigionieri. Lo stesso oratore dimostrò con dati e cifre inoppugnabili che una nuova guerra contro l'Abissinia ci sarebbe costata un miliardo e mezzo e quattro anni di preparazione. Questi dati e queste cifre vennero somministrati da uno dei migliori nostri generali. ~· ' . ' . ' ""' La Rivista Popolare di politica lettere e scienze sociali, si vende anche a numeri separati al prezzo di Cent. 30, il fascicolo. La Rivista Popolare di Politica Lettere e Scienze sociali esce il 15 e il 30 d'ogni mese, in fascicoli di 20 pagine in 4 ° grande.

RIVISTA POPOLARE DI POLITICA. LETTERE E SCIENZE SOCIALI 185 ORGANISMO E SOCIETÀ. (A proposito di una recente pubblicazione). Già più volte abbiamo avuto occasione di affermare, e nel modo· più esplicito, il nostro dissenso dalle analogie sistematiche fra il mondo organico ed il mondo sociale; analogie le quali, usate già ed abusate da Saint-Simon e da Augusto Comte, anche in ciò suo discepolo, son così insistentemente elaborate dai sociologi contemporanei. Né - sia poi questa biasimevole cocciutaggine od encomiabile coerenza - le convinzioni nostre su tale soggetto, come su tutti quelli a cui abbiam rivolto il nostro pensiero, han subìto alcun mutamento nel corso degli anni. Non è men vero però, che scendendo le scale della vita, noi ci sentiamo ad ogni giorno più disposti a comprendere ed incoraggiare gli indirizzi mentali più diversi e quelli medesimi, che sono agli antipodi delle nostre opinioni piit care; dacchè ogni giorno meglio intendiamo con Hegel, che l'errore, a cui si pervenga coscienziosamente, forma un momento nel sistema della verità. Per ciò da qualche anno noi leggiamo con attenzione benevola i numerosi scritti, più o meno densi di analogie biologiche, che si vengono pubblicando in sociologia, ed in molti fra questi - dobbiam riconoscerlo - abbiam ritrovato ed ammirato comparazioni sagaci e riusciti,simi raccostamenti. Ma fra tutti gli scritti di questa natura, che ci caddero sott'occhio, nessuno certamente ci sembra più interessante ed ingegnoso di quello recentemente pubblicato da Renato \Vorms, il dotto e versatile segretario dell' Istituto internazionale di sociologia (1), e perciò di quello scritto vogliamo intrattenere un istante i lettori di questa intellettuale Rivista. La società è un organismo ? Per risolvere questo problema, del quale i più con un tratto di penna si sbrigano, l'autore si domanda anzitutto che sia un organismo, quali ne siano i caratteri essenziali ed esamina p0i con· pazienza germanica, ma con genialità francese, se tali caratteri si ritrovino veramente nella società. Ora convien riconoscere che fra organismo e società corrono divari molteplici ed assai rilevanti. Ed infatti il vincolo, che congiunge gli elementi della societa, anzichè essere corporeo, come quello che unisce l'uno all'altro gli elementi di un organismo, è di carattere psichico; di più, il corpo sociale è infinitamente più complesso che il corpo vivente; infine le stesse società più rudimentali presentano spiccate analogie non già cogli organismi più infimi, ma coi pi{i elevati. Poiché, pertanto, la comparazione generale dell'organismo e della società non ci soccorre a risolvere il problema che ci interessa, vediamo (I) H. \Vorms, Organisme et societè, Paris, Giard et Brièrc, 1S96. se uno studio minuzioso degli organismi individuali e sociali possa trarci alla meta. A tale scopo l'autore inizia uno studio ragguardevole sulla anatomia delle società, ponendola a raffronto colla anatomia degli esseri organizzati. E qui davvero le rassomigliame si presentano in folla. Come il corpo vivente, così il corpo sociale è un insieme di cellule ; ma qual' è la cellula sociale? Non la famiglia, risponde l'autore, non, come altri vuole, la coppia, ma bensì l' individuo. Esattamente come fra le cellule organiche, fra le cellule sociali si producono molteplici aggruppamenti; un aggruppamento embriologico, la famiglia; un aggruppamento topografico (le tribù, le città, ecc.); un aggruppamento fisiologico (l'insieme delle fabbriche che cospirano alla produzione di una merce compita); infine un aggruppamento omoplastico (l'insieme degli operai impiegati in una stessa fabbrica). Ben più. Noi troviamo dei foglietti sociali, dei segmenti sociali (una regione), degli organi sociali. Il governo, ad esempio, è nella società ciò che è il cervello nell'organismo ; il che non toglie che v'abbiano governanti senza cervello, i quali gittano in preda alla ruina ed alla vergogna il paese che ha la dabbenaggine di seguirli. I fili elettrici internazionali furon definiti il teasuto nervo~o del globo. « Noi medesimi, dice Worms, visitando l'ufficio centrale telegrafico di Parigi, siam rimasti colpiti dall'analogia sorprendente fra la rete formata dai cordoni al punto di arrivo e l'intreccio dei col'doni nervosi in un cervello umano»; secondo un illustre zoologo della Sorbona, i ricchi sono le cellule adipose della società, le quali, al pari delle cellule adipose dell'organismo, scompajono nelle rivoluzioni che sconvolgono l'essere; ed il clero poi non è che un tessuto nervoso divenuto adiposo. Di certo però, nel dare quest'ultima definizione, quel zoologo avrà avuti innanzi alla mente i pingui prelati della :capitale, a lui più famigliari, anzichè il clero miserabile dello nostre campagne ; rispetto al quale l'analogia biologica ora ricordata suona davvero come la più amara irrisione. Se dall'anatomia procediamo alla fisiologia delle società, ci imbattiamo in nuove e notevolissime analogie - analogie, il V-Iorms ha cura di avYertirlo, ma non però moologie, non però tali da esludere le differenze più significanti. Ecco infatti il grande fenomeno della lotta fra le cellule, o fra le parti di un organismo, della quale il fisiologoRoux ha dato una dimostrazione così luminosa, e che trova ·segnalato riscontro nella contesa fra le classi sociali. La considerazione attenta di questa analogia ragguardevole abbatte una speciosa osservazione del nostro Garofalo ; il quale afferma che non può esistere una lotta di classe, come sostengono i so-

186 RIVISTA. POPOLARE DI POLITICA. LETTERE E SCIENZE SOCIA.LI cialisti, poichè le varie classi della società non sono che parti dell'organismo collettivo e fra le parti di un organismo non può darsi lotta di sorta, bensì amichevole cooperazione e alleanza. Del rimanente, a far giustizia di questa obbiezione, basterebbe soltanto il titolo dell' opera, nella quale il Roux ha consegnato le sue scoperte : La lotta delle pa1·ti nell'organismo. Anche nelle funzioni di nutrizione le analogie fra l'organismo individuale e sociale sono numerose e notevoli; ed infatti la produzione e la circolazione sociale non sono che funzioni di nutrizione, compiute dagli organi corrispondenti. La società ha delle funzioni di relazione ed un sistema nervoso che le soddisfa; e presenta perfino - chi lo crederebbe? - delle funzioni di riproduzione. La repubblica francese nel 1800 era difesa da un cinto di repubbliche - figlie; è un caso notevole di generazione intellettuale della società, in cui però si nota questo di speciale che il rapporto di maternità è stato puramente transitorio <lacchè è cessato coll'impero o colla ristorazione. Ma accanto alla generazione intellettuale s' ha pure una generazione fisiologica delle società, della quale gli incrociamenti di razze diverse, la fusione di gruppi preesistenti, offrono ad ogni tratto gli esempj interessanti. Se non che giungiamo qui ad un punto un po' delicato, sul quale i teologi del medioevo, se ne avèssero avuto il presentimento, ben avrebbero potuto cimentare la sottigliezza del proprio intelletto. Se due società, unendosi assieme, posson dar vita ad una terza, conviene ammettere che esse siano di sesso diverso; avremo dunque delle società maschio e delle società femmina ? E perchè no ? Se una nazione si sovrappone ad un'altra in forza dell'invasione e della conquista, noi possiamo correttamente asserire che la prima è il maschio e la seconda è la femmina, « perchè quest' ultima è penetrata dall' elemento straniero e vivificata da esso, esattamente come l'ovulo dallo spermatozoide ». Però è da soggiungere che la sessualità sociale non è precostituita ed invariabile, ma varia a seconda dei casi; cosicchè una ocieià, la quale oggi funziona come maschio, può domani funzionare come femmina. È il caso di una nazione già conquistata, che diviene a sua volta conquistatrice. Infine anche l'organismo sociale conosce la ripPoduzione per ge1·moglio; esempio classico la formazione delle colonie. Nella sezione successiva, dedicata a rintracciare l'origine delle società, ci troviamo trasportati di un tratto sopra un terreno più positivo e più solido. L'autore vi combatte assai bene la teoria del contratto sociale e discute con grande competenza la questione fra monogenisti e pologenisti. 1ell'analisi, che segue,. dello sviluppo della società, riappajono numerose e spiccate le analogie biobiologiche. Al pari dell'organismo individuale, l'organismo sociale presenta casi di estensione per dilatazione (ampliamento di una fabbrica), per apposizione (aggiunta di un nuovo operaio ad una impresa), per segmentazione (divisione fra due città di una industria fin qui esercitata in una sola di esse); nè mancano esempj di contrazione e di riassorbimento, come sarebbe la chiusura di una officina per mancanza di lavoro. Anche la società presenta degli organi rudimentali e regressivi (la nobiltà, le superstizioni). Anche le società, come gli organismi hanno fra loro dei rapporti (guerre alleanze). Come gli organismi individuali, così gli organismi sociali son suscettivi di una classificazione, sulla quale però i pensatori non si posero ancora d'accordo. Esclusa la ben nota classificazione di Spencer in società militari ed industriali, combatte le altre classificazioni ispirate a criteri divergenti. Worms inclinerebbe ad una classificazione che assumesse a criterio la successione dei tipi sociali, che fosse cioè davvero genealogica. Ma siam qui dinanzi ad un terreno non ancor totalmente esplorato, sul quale dovrà esercitar.si l' ingegno dei sociologi avvenire. Come l'organismo individuale così l'o~·ganismo sociale. presenta delle lesioni (così la Francia nel 1870 71) o delle malattie dovute ad inanizione (il pauperismo) o ad eccesso di attività (il surmenage fin di secolo); e v'hanno i contagi, le epidemie, e perfino le follie sociali. La causa delle malattie collettive deve di consueto ricercarsi nei conflitti che divampano, vuoi fra le società, vuoi fra i ·membri di una società determinata. È pur frequente il fenomeno della decadenza delle società, sia per vizio congenito, sia per sclerificazione ed irrigidimento (China). Infine si produce, o può prodursi, la morte della società. Se può dirsi che la morte della società non è logicamente necessaria, deve riconoscersi che anche la necessità della morte degli organismi non è stata logicamente provata. Secondo l'autore, la spiegazione più logica della morte individuale è quella data da Séhopenhauer; il quale afferma che si muore, non già perchè si deve morire, ma perchè ad un certo momento non si vuole più vivere, o non si vogliono più, abbastanza tenacemente, quei mezzi, ché soli possono protrarre la vii.a. La spiegazione però mi sembra più spiritosa che ragionevole ; ed inclinerei più volentieri ad accogliere la spiegazione di vVeismann, pel quale la morte è una istituzione opportunista, che si produce perchè e fincr.è si richiede ad assicurare lo sviluppo della specie. Se questa teoria fosse vera, la morte perderebbe la sua immortalità e diverrebbe una categoria storica, un fenomeno contingente, <lacchè non sarebbe escluso che cessassero un giorno quelle cagioni, che rendono oggi la

RIVISTA POPOLARE DI POLITICALETTERE E SCIENZESOCIALI 187 morte dell' individuo necessaria a promovere il progresso della specie. In quel giorno si celebrerebbe nel mondo la morte della morte, non nel senso apocalittico, di scomparsa di tutti gli esseri mortali, ma nel senso sereno e giocondo di una fi iologica eternità degli organismi. Ma comunque - e per rientrare nell'argomento del nostro dicorso, che la ridente visione stava per farci obliare - la morte delle società, se non è un fenomeno necessario, è pur sempre un fenomeno possibile e consueto ; e ciò basta perchè la sociologia comparata trovi una nuova fronda da aggiungere alla già spessa corona delle sue analogie biologiche. I rimedi, che propone l'autore alle malattie che ei denuncia, o coi quali cerca prevenire o differire la morte che prevede, non son.o di certo troppo energici e disgustosi; nè crediano che le nostre società, per quanto capricciose e bizzarre, si ricuseranno ad ingollare le blande pozioni che il nostro medico porge con sì galante amabilità. Egli respinge l'omeopatia di Marx, che vorrebbe curare il capitalismo ingrassandolo fino a provocarne l' apople sia; respinge l'autotomia di Darwin e Spencer, che vorrebbe la estirpazione dei deboli. dei poveri e dei degenerati, e consiglia una saggia allopatia. Ma assai pii1 della terapeutica, varrà a rinvigorire le genti nostre la igiene sociale, la quale, alla concorrenza sostituendo la solidarietà, promuovendo l'accordo fra i produttori nazionali ed internazionali, la cauzione solidale, la responsabilità dei comuni, organizzando una rappresentanza politica che rifletta gli interessi dei diversi gruppi sociali, perverrà a protrarre la vita dei consorzi umani ed eventualmente a deprecarne la morte. Tale è il vasto campo, nel quale spazia, con mirabile dottrina ed acutezza singolare, l'autore di questo libro, che è tanto ornamento della « Biblioteca sociologica internazionale ». Non esprimeremmo di certo il nostro pensiero, affermando che il libro ci ha fatto fare un passo di più nell'analisi della società attuale, nel meccanismo de' suoi misteriosi processi; ma esprimiamo però l' intima nostra convinzione, affermando che l'opera del Worms è monumento di un ingegno elettissimo e che i racco tamenti biologici ond'essa ribocca son pel sociologo sommamente istruttivi. Se anche si vole ·se definir questo libro un arco trionfale gittato fra due continenti tenebrosi, si donebbe in pari tempo soggiungere che l'arco maestoso ci meraviglia per la eleganza de' suoi ogivali, per la snellezza delle sue colonne, per gli ardi menti dei suoi sesti acuti ; e tutto ciò non è poco davvero, sopratutto ove si pensi alla volgarità commerciale, che contraddistingue monumenti scientifici contemporanei. ACHILLE LoRIA " VIVA CUBA LIBERA,,, Si trattava. d'arrestare una. colonna. spagnuola, per da.re il tempo a, Maceo di arrivare a un luogo della costa dove si sardbbero avuti uomini ed armi. M11.- tilde Agra.monte y Varvna si offrì, co' i suoi fratelli, a far parte del manipolo sacro alla morte. Ella cadeva. ferita, su i cadaveri de' suoi, quando gli spagnuoli le imposero di arrendersi. L'eroina rispose gridando: Viva Cuba libera - e fu crivellata di palle. Come augurante fu questo grido all'isola insanguinata dagli spagnuoli ! Mentr,; s~rivia.mo, sicuramente il messaggio di Cleveland riconosce agli insorti la. qualità di belligeranti. La dottrina. di Monroe poi farà il resto. E con quale viltà certa stampa à ol'ganizza.to la. coogiur.i. del silenzio intorno all'epopea Cubana! Qualche gioronle diffuso à osato stampare in Italia. delle corrispondenze inneggianti alla repressione spagnuola. Mercenari abbietti del giornalismo ànno indicato al1' Italia. il patric,ttnmo spagnuolo. C' è da. gridara abbasso la patria se la patria. deve ormai servir di pretesto all-, turpitudini dei parassiti. Agli italiani infrolliti bisogna più vc:ramente mostrare ad esempio · h eroica c<>stanza degli insorti di Cuba, i quali condannati a mantenere quelle classi privilegiate e impro:lultivo che non sanno sottoporsi al lavoro (1), lottano da un mezzo secolo con una tenacia, meravigliosa di coraggio e di fede, per emanciparsi. Quest'ultima rivoluzione era da. lungo tempo preparata nella perla delle Antille.« Quando l'ora scoc~ò essa è scoppiata come un colpo di fulmine. Due generazioni, l'una di veterani, l'altr.i. di giovani, l'una che combatte ali' interno dell'isola, l'altra che lavora all'estero, cospirarono durante tre anni con entusiasmo» (i). * * Nell'aprile del '96, quando già l'insurrezione cubana conquistava dovunque s'mpatie ed auguri, malgrad<>le false notizie propalato dalla stampa sulle vicende dell'insurrezione, un anonimo stampò a Madrid un libro che ora, dopo l'intervista. di un giornalista francese con Canovas del Castillo, non ci può essere dubb;o sia opera riveduta ed appr<>vata. dal ministro di Spagna. C' é fra l'altro, nel libro e nella intervista del Cànovas, la stessa spudoratezza. tirannico: gli insorti sono en perpetua lucha con las leyes de la moral de la lealtad y del honor (3). Sono morali si i governator; di Spagna e i soldati che commettono le viltà e le infamie narrate dal dottore ame1•icano Mrnuel Delgado nel New-J orkIIerald, sono leali si gli spagnuoli che mandarono al patibolo Aquero, Placido, Pinto e Lopez i quali osarono amare la libertà; gli spagnuoli del trattato di Zanjon che fu un'insidia e un inganno ; gli spagnuoli che per mezzo del loro generale Polavieja assassinarono il generalti Leyte Vidal, invitandolo a un (I) )lanifesto che ;\laximo Gomez e Francisco Marti, scrissero a nome desii insorti. (llevista Espanola, luglio '05). (2) id. id. (3) Espana y Cuba - ~ladri<l '96.

188 RIVISTA POPOLARE DI POLITlCA LETTERE E SCIENZE SOCIALI pranzo; gli spagnuoli della tortura ai fratelli Aruca, delle pugnalate al Riveron, delle fucilazioni di Ama· rillas e degli assassini di Puentes grandes ed Alquizar. E la Spagna, che chiude ai commerci le porte di Cuba per procurare ad ogni costo un mercato alle sue industrie, la Spagna che impone a Cuba il suo giogo e la sfrutta, che rifiuta ai cubani qualunque potere reale nel loro paese, che confisca i prodotti del lavoro cubano, che mantiene con la forza delle armi un mostruoso regime di oppressione, la Spagna dico della borghesia affarista e tiranna - non certo del popolo lavoratore e generoso - chiede: l Come justifìcar la estraila conducta de los que, alzados en armas pretenden romper todo vìnculo de uni6n con la madre patria? No hay razon que la explique, ni pretexto que la disculpe » (1). Le ragioni che esplicano, e i pretesti che discolpano le rivolte cubane le ha scritte il prof. Enrique J. Vai-ona, ex deputato a Cortes (2). La Spagna à sfruttato l'isola di Cuba col suo regime fiscale, col suo regime commerciale, col suo regime burocratico, e la storia di Cuba durante,.questo secolo è una lunga serie di ribellioni, ma ognuna di esse fu preceduta da una pacifica lotta per il diritto·: una lotta sempre infruttuosa. Nessuna metropoli è stata mai più dura, nessuna à sfruttato mai una colonia con più malvagità e meno preveggenza della Spagna; a Cuba furono negate le libertà concesse a Porto Rico. Per diciassette anni i cubani reclamarono la libertà; oggi chiedono l'autonomia e combattono, e già la vittoria arride agli audaci. Nessuno à il diritto della tirannia. La Spagna ci è tiranna - dice il partito rivoluzionario cubano nel suo manifesto al popolo italiano -. Nel ribellarci contro i tiranni noi difendiamo un diritto. i\ el servire la causa nostra noi serviamo la causa della umanità. Noi non abbiamo numerato i nemici; noi non abbiamo misurate le loro forze. Noi ci siamo fondati sulle nostre sofferenze; abbiamo pesato la massa delle ingiustizie che ci affliggono e con cuore fidente siamo sorti a cercare rimedio e a difendere i nostri diritti. Noi possiamo trovare la morte e la rovina a pochi passi. Così sia. Noi compiamo un dovere. Bisogna conoscerle le vicende di questa fase recente della rivoluzione. Um Republicano le narra iu un libro dedicato al popolo spagnuolo che dal 1808 al '13 seppe vincere l'orgoglio di Napoleone difendendo eroicamente la sua indipendenza, e al popolo cubano che in cinque rivoluzioni affermò il diritto alla sua indipendenza e combatte eroicamente per conseguirla (3). I cubani sono alla vigilia della vittoria. A' 28 di settembre '95, Antonio l\faceo - a synthese, dice il Cattaruzza, de· todos os odios, de todos os rancores (I) id. id. (2) ,lanifesto del Pa,·tito 1·ivoluzionai-io cubano al popolo Italiano Firenze, 189G. (3) Um Republieano (Il quale è poi il nostro )Jario Catta.-uzza) • A revolu~ao de Cuba•· San Paulo. que no correr dos seculos, se foram avolumando contra a Hespanha na ilha de Cuba - così scrive a un suo amico: « Potete contare assolutamente sul fatto che la rivoluzione è invincibile. -. Dopo l'armi, il vomito nero e la febbre gialla vincono la Spagna. Sei mila spagnoli sono morti in un combattimento decisiyo, e sedicimila gemono negli ospedali. Il generale Veyler, sconfitto, fuggì precipitosamente da Pinar del Rio, rientrando per mare ad Avana. * * * Poveri soldati I vittime, essi del popolo, della cupidigia degli sfruttatori del popolo. Poveri soldati spediti laggiù sotto pretesto di un patriottismo che, come quello de' guerrafondai italiani, sta nei biglietti di banca é un pervertimento del giudizio. Poveri lavoratori di Cuba i quali non posson fare di meglio che dar la vita per la prosperità dei capitalisti cubani i quali soli avranno un reale e diretto vantaggio dalla indipendenza dell'isola. Poveri lavoratori negri e bianchi che, liberi cubani, rimarranno nella miseria come oggi che sono soggetti spagnoli. Ma l'indipendenza servirà col tempo alla loro emancipazione. Vincano : ecco l'augurio. A tutte le vittime oscure, e a Maximo Gomez, generale in capo e stratega dell'esercito cubano, l'uomo al quale sono conversi gli ~guardi di tutti gli Americani; ad Antonio Maceo e J osè ; al Roloff vecchio rivoluziona.rio di Polonia che à dato i suoi averi e s'è messo nella prima linea della rivoluzione cubana, al giornalista De Quesada, a Guillermòn il colosso negro, guerriero e medico; a Gualberto Gomez, il giornalista negro della lotta contro la Spagna; a Emilio Nunez; a José Dolores Poyo, la prima penna del partito separatista cubano; a Julio Sanguily comandante della cavalleria degli insorti, uomo di rara capacità e di est1·emo valore; a Salvador Cisneros direttore supremo della rivoluzione cubana, noi facciamo un augurio, grande come il mare che ci divide. - Viva Cuba libera. Sono queste le ultime parole di Matilde Agramonte y Varona, l'eroina della repubblica cubana uccisa dagli spagnuoli rinnovanti la viltà di Maramaldo. B. SALEMI. P. S. - A proposito della dottrina di Monroe, il Gaulois di Pa1·igi, preoccupato - non sappiamo con quanta ragione - di un intervento degli Stati-Uniti à chiesto a molti competenti la loro opinione sulla importante questione. Il Dil'ettore della Rivista Popolare, rispose con la lettera seguente : Chiaro Signore, I principi che professo m'inducano a pensa1·e che la diploma:::ia Europea si disonora lasciando massacrare gli Armeni; non potrei che lodare la diplomazia americana se non lasciasse più opprimere i cubani. In Francia, se sono vivi ancora i ric01·di del secolo ~co1·soquando (a 11lonarchia non negò il suo aiuto

RIVISTA POPOLARE DI POLITICA. LETTERE E SCIENZE SOCIALI 189 agli ame,·icani contro l' Inghiltel'l'a, si dovrebbe pensare come la penso io. Ma l'Europa lasce1·ebbeapplical'e in modo attivo ed estraneo la teo,·ia di Mom·oe ? Farebbe il bl'oncio per un momento e poi lascerebbe fare. l11li01·eda con ogni rigua,-do suo obbl.mo Dr. N. Colajanni. Oh le classi superiori! ... Amministratori che abusano delle loro funzioni in vantaggio proprio o di clienti ; cassie1·i che sottraggono i fondi loro affidati; impiegati che favoriscono le rapine a danno delle amministrazioni pubbliche, e vi partecipano pur essi ; diretto1•i di banche che truffa.no gli azionisti ed il pubblico; uomini politici che si valgono della loro posizione per isfruttare questo movimento turpe, imponendosi o come protettori o come favoriti e persino come autori;... Qut:sto è lo spettacolo che ci si presenta sempre, ma che in questi ultimi giorni, dal settembre ad oggi, si è fatto più completo e vario cogli scandali del Banco di Napoli, di Bologna, del Municipio di Catania, di quello di Monreale, della Tesoreria comunale di Palermo, della società Veneta, della società Immobiliare, della Banca popolare di Pisa, e colle inchieste amministrative ai ministeri dell'Interno, dei Lavori Pubblici, di Agr:coltura, al Genio Civile di Napoli, alla stazione Agraria di Palermo etc.; e potrebbe l'enumerazione continuare ali' infinito, se tante magagne che ancora. covano fossero vem1te alla luce. Un anno fa, il male esisteva come oggi, ma non era ancor cominciata l'opera d'indagine officiale ; il pubblico e molti impiegati non colpevoli ne parla.- vano, ma non una voce si levava ad accusare. E ciò perchè da lungo tempo è penetrata nelle masse la persuasione che l'amministrazione dello Stato e quella degli enti locali, non possano andare esenti dalla corruzione; con t!lle 1:>ersuasione si rimane insensibili anche davanti al vertiginoso succedersi di rivelazioni, per la scoperta di nuovi reati. Chi è invasato dalla politica attribuisce tale fioritura turpe a.Ila qualità degli uomini che dirigono, e magari alla influenza che le camorre di alcune regioni hanno esercitato dovunque; ma queste non sono che piccole ca.use, incapaci di dar luogo ad un sistema. Altre più importanti e generali ve ne sono, e se quelle potevano eliminarsi, queste non potranno scomparire, che col rinnovarsi del sistema. * * * Da noi c' ;, v1z10 negli organismi e v1z10 nel funzionamento della economia ; ma in fondo si risentono in forma più acuta, e forse più vergognosa perchè meschina, gli effetti della organizzazione sociale borghese. Chi osserva i fatti in se stessi, si accorge che nelle aziende dove si maneggia il denaro del pubblico, si ha ben poco la coscienza dei doveri e delle respon- • sabilità. che incombono ; non si abborrisce il male in se stesso, ma per le responsabilità penali che implica; lo si commette se vi ha la certezza che non verrà mai scoperto. E perciò che se vi ha una remora per coloro che si trovano in fondo alla scala, non c'è ritegno in coloro che ne sono alla ci 'Da, che non temono quin'di il controllo altrui e possono fare e disfare a proprio piacimento. I capi delle a~iende, coperti dalla autorità del grado dalla protezione di cointeressati potenti, e dalla stessa debolezza che si ha generalmente nel!' infliggere punizioni anche meritate a.Ile così dette persone di riguardo, dalla renitenza che le amministrazioni pubbliche medesime, hanno nel mettere in evidenza le brutture che le screditerebbero; possono liberamente servirsi dell'ufficio loro per lucrare indebiiamente oggi il prezzo di un illecito favore, domani per prendere a man salva, larvando il furto con un titolo di spesa qualsiasi, il denaro ad essi affidato. Quale può essere l'effotto di tali esempi nei subalterni? Essi che debbono sin dai primi momenti lottare contro la pletora dei concorrenti, che poi trovano lentezza di avanzamenti per sovrabbondanza di personale, e scarsa, insufficiente remunerazione, non hanno gli onori dell'elevata carica che li trattengano dinanzi alle lusinghe del!' illecito guadagno ; eppure sono, proporzionalmente, quelli che meno deviano. Se però un senso di rettitudine spontanea o coatta li trattiene, la tema di possibili rappresaglie, impe• disce loro di rivela.re quanto succede intorno, e perciò le irregolarità si perpetuano e si estendono, si organizzano conventicole e camorre, si fa dell'ufficio un mercato alla vendita, un campo aperto alle ruberie. * * * A ciò non è estraneo la speciale condizione dell'ambiente. L'impiegato, anche se di grado elevato, è compensato con stipendi assai inferiori al guadagno di un negoziante o di un esercente libero qualsiasi , mentre la carica che cuopre, i contatti che questa gli impone, esigerebbero un'assegno più largo. Intorno a lui sta un mondo dove, per lo sfacelo della nostra economia, si lavora poco, dove il guadagno è ridotto al minimo, e dove si è costretti a raggiungere per vio traverse, l'utile che per l'onesta via tarderebbe a venire. Da ciò nasce naturalmente che l'affarista abile, col mezzo di intermediaoi scaltri o potenti, si fa intorno a. quest'uomo stretto da bisogni superiori alla. sua finanza, assetato, come tutti nel nostro tempo, di lusso e di godimenti ed offre in cambio di una sollecitazione, di un parere favorevole, di una tolleranza dolosa, di una firma che non si dovrebbero mai concedere, la larga partecipazione di utile, e compensi in mille forme. Da un n.ltro canto la negligenza, la inettitudine, la acquiescenza di coloro che llccupano in tali

190 RIVISTA. POPOLARE DI POLITICA. LETTERE E SCIENZE SOCIALI aziende un ufficio politico o decorativo e dovrebbero vegliare alla regolarità delle spese, alla conservazione del pat.1•imonio eh' è loro commesso, fanno venire, in chi si trova a disposizione somme di denaro o cose, la ,1,ossibilità di servirsene od appropriarsene; ed ecco come svanisce rapidamente la percezione del proprio e dell'altrui, del lecito e dell' illecito. * * * Ma poichè questo non si può evitare, poichè per 1·agioni intrinseche od estrinseche le pubbliche e le grandi amministrazioni che hanno a trattare col pubblico, rendono possibili, anzi facilitano i reati, dovrebbe esse1·vi da parte della legge una coazione proporzionata al danno, t.ile da servire di esempio, e nella società una condanna morale che ne mettesse i ddinquenti ali' indice. Purtroppo la legge è mite nelle sue sanzioni non solo ma spesso è resa vana dall'abile maneggio amministrativo, per meizo del quale, se apparisce la certezza morale del reato, ne manca la prova materiale; è inceppata dall'intervento di solidarietà e di protezioni; è fuorviata dalla influenza dell'elemento politico. .. La. società dunque dovrebbe inil•ggHe una pena morale a qeesti colpevoli, e con tanta maggio1· ragione in quanto la loro colpa porta danno, non ad isolati cittadini, ma al pubblico in genere. Eppure i funzionari colpiti da pene più o meno severe, ritrovano nel mondo un pietoso consolatore. Si aprono a loro uffici privati, si conferiscono incarichi, si rimettono insomma in circolazione con nuove funzioni; ed essi a buon diritto portano alta la testa, accolti, ricevuti, sopportati come prima. E la ragione è intuitiva: Da noi come dovunque si è formata una nuova, strana, cinica concezione del lucro. Non si bada se è ottenuto con danno di operai, di impiegati di azionisti, di consumatori da parte del direttore di società industriali, bancarie o commeroiali, come non si bada se il commerciante inganna l'acquirente, se il proprietario usurpa l'altrqi dominio, se l'erede si vale di un documento, se il fallito ruba ai creditori, se il contraente inganna di proposir.o chi contratta con lui; si bada invece al resultato. Quando uno è arricchito e può compiacere od imporsi agli altri collo sfarzo e colla potenza, sebbene porti lo stigma del falsario, del ladro, dell'usuraio, del banbancarottiere, molta gente che in simili circostanze avrebbe fatto altrettanto s'inchina ed invidia; quella che avrebbe volontà di protestare e di ribellarsi deve per convenienza o per ragioni di convivenza lasciar correre. E questo è il denaro, la proprietà facile ad accumularsi, che procura godimenti senza fatica, che perpetua e moltiplica la potenza anche ai non operosi ed agli idioti ; è la borghesia che non ha. neppure il pudore di celare le origini della. sua fortuna. Perchè dunque oggi ci si dovrebbe meravigliare se cassieri scappano, se i tesorieri rubano, se gli azionisti sono truffati dai direttori, se gli impiegati vendono favori o spillano denaro sulle spese, o tra.fugano la roba non loro? In Francia questo pervertimento è stato rivelato dagli scandali del Panama delle fen·ovie del Sud, del Petit Sucrier, in Italia si è constatato col fallimento della. Banca Romana e con iutti i piccoli scandalucci che l'anno susseguito. È differenza di misura e di proporzioni ma la causa è la stessa. CESARE CASTELLI. LA SICILIA NEL r8or. I moti siciliani del 1893-94 1·ichiamarono l'at. tenzione ~ulla perla del mediterraneo, che del resto fu sempre oggetto di studi importanti. 1on solo si ricercarono le cause dei mali deplorati e si proposero numerosi rimedi - indizio sempre di infermità greve se non inguaribile! - ma si disotterrarono scritti antichi di siciliani, che si occupavano delle condizioni della loro isola in altri tempi. Questi scritti non hanno soltanto un valore storico; ma servono mirabilmente a dimostrare che il male è antico e che certi rimedi ritenuti adatti a guarirlo anche oggi invano furono raccomandati da un secolo in quà perchè l'isola disgraziatamente fu sempre governata nel modo più cattivo, che si possa immaginare. L'illustre professore Ricca Salerno nello scorso anno ci fece conoscere i pensieri di Balsamo sulla quistione siciliana ; oggi il prof. 1avanteri ci dà i giudizi di Giovanni Meli esposti in un manoscritto del grande poeta dialettale che si conserva nella Biblioteca Comunale di Palermo e che porta il seguente titolo : Rijf,essioni sidlo Stato presente del Regno di Sicilia - 1·iguardo a ci6 che conce1·ne l'agricoltu1·a e la pastorizia - abbozzate dietro la sco1·ta clel senso comitne e dell'esperienza - 1801. Il Navanteri ha riprodotto integralmente il manoscritto del Meli, che sembra dbttato oggi, tanto sapore di modernità vi si riscontra (l ). Due concetti prevalgono nello scritto del grande poeta siciliano: l'odio intenso contro gli avvocati e l'amore vivissimo pei contadini, dei quali conosce le condizioni per averle studiate da medico in un paese agricolo della provincia di Palemo, in Cinisi. Più volte si scaglia contro gli avvocati e deplora sopratutto che « siano strappati i figli, i fra- « telli, i nepoti del contadino agli studi campestri « per applicarli al pagliettismo ad oggetto di ser- « virsene per baloardi alla custodia dei suoi beni {1} Giovanni Meli : Rifleasioni sullo stato presente del regno di Sicilia (1801). Intorno ell'a(Jt·icoltura • alla pastorizia. Pubblicato per cura del Prof. Giuseppe Navank?ri. Ragusa, 1806.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==