RIVISTA POPOLARE DI POLITICA LETTERE E SCIENZE SOCIALI 163 LEZIONE PERDUTA? Leggevo alcuni giorni sono un articolo, nel Don Chisciotte, di Luigi Lodi : un giornalista di sensi liberali e che ha partecipato con vigore e coraggio alla guerra contro il Crispi e i suoi bravi. Iu esso si diceva chi> lo scoraggiamento degli Italiani per la sconfitta di Adua era troppo grande ; e che, infine, si trattava di una divisione italiana caduta combattendo contro un nemico sei volte più grande. Pochi articoli mi hanno sorpreso tanto come questo di un pubblicista tra i più intelligenti e sensati d'Italia, che ripeteva un argomento già trattato nella Tribuna, da Guido Baccelli. É possibile che il significato di una così tremenda lezione si sia già perduto, nelle anime obliose degli italiani se anche chi rappresenta una idea di saggezza e libertà ripete i sofismi di chi, divenuto complice di un gran delitto, cerca di dimostrare che il gran delitto non è poi che un piccolo fatto di cronaca? La filosofià ufficiale ha difatti oramai formulato sulla battaglia di Adua questa teoria: « la causa del disastro è stata il momento di pazzia del iBarattieri ». Misteriosi disegni della Provvidenza ! Forse se Barattieri avesse mangiato un giorno prima dei piatti con meno pepe, avrebbe anche bevuto meno; se avesso bevuto meno sarebbe stato meno eccitato; se fosse stato meno eccitato, non avrebbe ideata la infausta battaglia! .. Chi sa? Sulla traccia di questa filosofia della storia i critici del 3000 troveranno che un cuoco, caricando di pepe le pietanze del generale fece passare l' Italia dal rango di prima a quello di seconrJa potenza e trasse a estremo pericolo la monarchia. Eppure queste sciocchezze non sono punto più sciocche delle molte cose che si vanno scrivendo della battaglia di Adua, quando si vuol far credere, con serietà che se Baratieri fosse stato più saggio l'esercito nostro avrebbe vinto. Solamente i ciechi di fatto possono non vedere che ben più che l'incapacità del generale nocque alla fortuna della guerra la confusione e l'insufficienza dei servizi amministrativi. La lezione vera e terribile della campagna è stata questa: che dopo aver spesi un numero prodigioso di miliardi per fare un esercito l'Italia non è stata capace di mettere in piede di guerra 50000 uomini, dando loro tutto il necessario non solo in armi e munizioni, ma anche in vesti e nutrimento. É vero che si trattava di provvedere così 50000 uomini a una enorme distanza; ma quando si pensa che in una guerra Europea, se gli eserciti sarebbero meno lontani, sarebbero dieci volte più numerosi, c'è da temere che i nostri soldati avrebbero da fare la fine del Conte Ugolino. Ora un esercito che possiede soltanto dei fucili e dei cannoni, ma non possiede un buon meccanismo Amministrativo, per cui i soldati siano provveduti di tutto, è uu esercito che non esiste, è un esercito ipotetico, formato d'Ufficiali che tirano lo stipendio, ma che nou serve a nulla. La campagna d'Affrica ha dimostrato che l'esercito italiano è più un'apparenza che una realtà; onde sembra che il popolo italiano abbia a dolersi non soltanto di una divisione perduta; ma del lungo inganno, con cui gli sono stati estorti tanti denari, senza nessuna conclusione. Ma la campagna ha anche dimostrato una verità più grave, innanzi alla quale si è voluto chiudere gli occhi: che è cioè impossibile, con l'esercito permanente e a reclutamento forzato, fare una guerra vittoriosa se i soldati non vanno volentieri alla guerra e non sono risoluti a voler vincere. Più ancora che la insipienza dei capi e la impreparazione dei servizi, ha contribuito a precipitar le sorti di tutto, il malvolere dei soldati, che non volevano battersi ; come, più che lo scoraggiamento presente, è un segno di fiacchezza morale universale, la paura che si è avuta di vedere la verità e di dichia1"arla: la verità era questa: che conteneva molto pii'1 di verità il primo telegramma di Barattieri che le smentite piagnucolose da lui fatte dopo. Chi ha parlato con qualche soldato reduce dalla battaglia, ha sentito certo ripetere queste frasi: è stata subito un'enorme confusione ; gli ufficiali non riescivano a farsi ascoltare e appena qualcuno ne cominciò a cadere, tutti si sbandarono. Del resto anche la cifra, relativamente esigua, dei morti, dimo3tra che la resistenza di gran parte dei soldati è stata debole assai. Nella guerre cogli abissini - che sono guerre di massacri - un esercito vince o riesce a ritirarsi con ordine: ma se le due ipotesi non si avverano, è massacrato quasi interamente. Tutta la storia delle guerre abissine dimostra questa legge, a cui invece la battaglia di Abba Carima si ribella, perchè in essa l'esercito italiano non ebbe vittoria, non si ritirò in ordine, e non lasaiò sul campo che 113 dei suoi uomini. È evidente che il disordine è cominciato presto e che appena gli ufficiali si sono diradati sotto il fuoco nemico, i soldati abbandonati a loro, hanno provveduto come potevano, alla loro salvezza. E la cosa non può stupire: essa è cosi verisisimile che, da chi conosca un poco gli uomini e abbia praticato un poco il popolo, a cui la maggior parte de' soldati apparteneva, poteva essere supposta e creduta a priori. Certamente, in un momento e in un paese ove l'ignoranza è il più bel titolo, ad un uomo di stato, per salire, c' è da farsi ridei' dietro, da tutta la turba insolente dei potenti
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