64 RIVISTA POPOLARE DI PJLITICA. LETTERE E scrnNZE SOCIALI dire, che la legge dell'evoluzione. presentandoci l'uomo in una perpetua ascensione da carne a spi• rito e armonizzando sempre meglio i moti del pensiero con quelli del mondo universo, ci redimerà finalmente dalla tristezza, che nasce dalla considerazione del male e della morte quali condizioni indispensabili della vita. Se l'uomo sarà sempre un composto di ragione e di sentimento, egli non potrà mai tanto uscir di sè stesso da rassegnarsi alla distruzione di quelle forme, a cui sono intimamente legate le funzioni, gli affetti e gli ideali della sua vita. La ragione gli proverà che le sue ansie son vane ; che la sua smania d'immortalità è ridicola; che non giova nelle fata dar di cozzo; ma l' in• dole sua, eh' è il resultato necessario d'una lenta elaborazione a traverso i tempi, i climi, le razze, lo spronerà pur sempre a scavalcare il limite fatale, a spezzare la porta adamantina, ad assediare d' interrogazioni dolorose la sfinge marmorea che siede indifferente sull'immensa piramide edificata con le ossa di mille generazioni nell' interminato deserto. Forse m'inganno: ma questo dissidio fra la ragione e il sentimento, contro cui tanti fi~_osofi della nuova scuola avventano le frecce più acute della loro dialettica, quasi a bicipite mostro generato da stolte religioni e da falsi metodi educativi, a me sembra radicato nelle viscere stesse dell' essere umano, mi pare anzi l'effetto necessario d'una legge universale: giacchè non arrivo davvero a comprendere un'attività e quindi una manifestazione qualunque della vita, senza resistenze ed attriti, senza quelle fluttuazioni e discordanze, onde risulta la univer.sale armonia, e che sole rendon possibile la conservazione e il perfezionamento degli esseri. Ora, se la scienza non dee contravvenire alle leggi della natura; se l'educazione può formare abiti nuovi, non creare novelle facoltà, qualunque spiegazione si tenti del doppio problema, noi non giungeremo probabilmente giammai a mettere d'accordo il bisogno sempre crescente di felicità con la considerazione della indifferenza indeprecabile della natura nella produzione e nella distruzione delle sue forme. Per ammettere la possibilità d'una tal conciliazione è necessario supporre, che lo svolgimento incessante del genere umano giungerà finalmente a sopprimere e cancellare dai nostri organi tutte le eredità sentimentali non solo, ma ad atrofizzare gli organi stessi destinati all'acquisto e alla elalorazione dei sentimenti: a distruggere im;omma una parte, non dirò se la' più bella o la più brutta, ma una par le nece~rnrissima alla interezza armonica dell'essere umano. Come potrebbe la ragione, fredda e crudele Yincicitrice, governare più la vita, senza il sentimento, entità intermedia fra la sensazione e il giudizio, che serve ad armonizzare nell'uomo i due estr&mi della vita sensitiva e. della. vita razionale? Data come possibile una sì strana vittoria, le fonti stesse del pensiero rimarrebbero congelate, esaurite le forze produttrici della coscienza: l'anima umana cadrebbe in quello stato di raffl'0ddamento a cui giungono man mano i corpi celesti, e la povera ragione vittoriosa sarebbe· condannata a regnare sopra un deserto di pomici. Se questo è pessimismo, mio riverito signore, io era già pessimista, quando scriYevo il " Giobbe ,, e pessimista sono anche adesso, dopo le " Poesie religiose ,,. Ma questo pessimismo, giova ripeterlo, a me non sembra punto metafisico o sentimentale. Giobb& non rinnega la scienza, non dispregia la vita: egli chiede solo al sapere quella pace, che prima ebbe chiesto a Dio, poscia a Satana, ma sempre invano; e che dovrebbe, secondo lui, derivare dalla conoscenza piena della verità. La quale, fosse pur trista e terribile, non lo spaventa: egli ha sete inestinguibile di essa: vi si affogherebbe dentro; questa è la sua debolezza o la sua virtt1: « Dove Mi fosse inferno il vero, io vi starei: Il paradiso del beato errore Lascio agli stolti ed a' pusilli. ► Quello che più lo tormenta è l'insufficienza del suo sapere; e: Io sento Io sento pur, che pago esser non posso: Mirar ti vo', posseder tutta,» egli dice a Iside. L'impazienza di strappare alle labbra della dea impassibile la parola suprema della vita e di riposare finalmente nel seno della verità, lo spinge a varcare le colonne segnate come termini a.i voli indomabili del suo spirito. Non è forse questa la storia perpetua del pensiero umano ? La tristezza desolata di Giobbe proviene dalla riconosciuta disuguaglianza fra. il bisogno cl' illimitata perfezione e libertà, ond' è travagliato il suo animo, e la ristrettezza miserevole dei mezzi scientitìci per sodisfarlo. Deve egli rassegnarsi? No: gli parrebbe rinunziare alla parte migliore di sè stesso: alla sua perfettibilità. Onde il problema apparso primamente al suo spirito, provato dalla sventura, non che trovare una qualsiasi risoluzione, si propone infine del poema con tragica insistenza. E questo prova, se non m'inganno, che le ipotesi più o meno felici nel campo delle scienze fisiche e morali, e le leggi più ardue rapite dal genio umano al seno misterioso dell'essere, possono per qualche tempo appagare gli spiriti più insaziabili, adagiarli in un tal quale riposo, accenderli magari di subiti entusiasmi, quasi fosse in lor potere finalmente la chiave dell'universo ; ma l'avidità smaniosa di sempre nuove ricerche ritornerà _presto a turbarli; il pensiero cresciuto di nuove
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