RIVISTA DI POLITICA E SCIENZE SOCIALI 341 Rossi e dal Bizzoni; così. moderati, e radicali onesti, giornalisti coscienziosi e militari valorosi si trovano concordi nel condannare la sciaguraia nostra politica, che oramai non troYa difensori che nell'on. Crispi e nella sua banda. Ecco l'articolo cli Adolfo Rossi, cui in nome proprio e dei lettori la Rivista rende grazie. La sola industria di qualche importanza che esista a Massaua è la pesca della madreperla che da molti anni viene eserciiata per conto di alcuni negozianti austriaci. La madreperla viene mandaia tutta a Trieste per le fabbriche dei bottoni e se qualche cosa rest.i da fare ali' Italia è di regolare e moderare la pesca stessa, altrimenti fra pochi anni anche quel prodotto verrà a mancare. Di altre industrie da tentare a Massaua (luogo caldissimo e asilolutamcnte privo di acqua - quella che si beve è distillata) non ho sentito parlare che della pesca che si potrebbe fare in grandi proporzioni per ricavare olio da macchine. I pochi negozianti che fanno affari a Massaua sono tutti stranieri: vi è qualche italiano che s'industria colle forniture alle truppe, ma è cosa transitoria, che cesserebbe, col cessare deffoccupazione militare. Anche le più piccole industrie - osterie e caffè - sono in mano dei greci. Internandosi verso l'altopiano, la prima zona bassa da Massaua a Saati è una sterile e desolata landa, attraverso la quale corre l'unico tronco di ferrovia della colonia, lungo 27 chilometri. Dopo Saati, fra i Digdigta e il Dongolo, si trova una bolla vallata, Sabarguma, cl.te sembra coltivabile, ma è impesrata dalle fobbri. Di piante indigene si osserva subito l'euforbia candelabra: si sperava, di ricavarne una specie di gomma, ma gli esperimenti non diedero buoni risultati. Da un'altra pia.nta, tessile, si potrebbe for~e rica.vare un po' di corda.. Fra i sassi e Jr roccie non si trovò mai alcuna traccia di minerali: il capitano del genio cav. Ferrero, che da alcuni anni spaccava fianchi di montagne per la costruzione delle strade, mi diceva che trovò solo un giorno una insignificante traccia di amianto. Quando da Ghinda, su per l'Arbaroba, si giunge all'altopiano d'Asmara (2300 metri sul livello del mare) si notano immediatamente gli inconvenienti che contraddistinguono tutto l'altopiano etiopico la cui altezza varia dai 1500 ai 3000 metri; per l'altitudine si ha costantemente uno squilibrio troppo forte di temperatura dal giorno alla notte (non di rado il termometro che al giorno supera i 35, alla notte scende a zero); nella breve stagione delle pioggie l'acqua cade a torrenti, ma poi si hanno otto o novo mesi di assoluta siccità. In tali condizioni è inutile parlare di agi·icoltura: quegli altipiani si possono prestare tutt'al più ad uno stadio di pastorizia primitiva; le poche conche in cui si trova un po' d'acqua sono del resto coltivate a dura ed orzo dagli indigeni. Gli esperimenti fatti dall'on. Franchetti ad Asmara mostrarono che sì e no poteva raccogliersi un po' di grano quando non capitavano le cavallette: le viti non attecchirono. Della conca di Cheren, più bassa dell'altopiano di Asmara, mi diceva il capitano Noè, dopo vari anni di esperimenti di piantagioni fatti per conto del governo: « In varie parti,, della conca si semina con vantaggio l'orzo e la dura, ma troppo spesso i raccolti vengono distrutti in erba dalle cavallette. Non un solo privato è riuscito a cavarsela facendo l'agricoltore ». Interrogai i cinque o sei italiani che avevano fatto dei tentativi e mi raccontarono tutti storie scoraggianti. Ne cito una sola, per saggio. Un certo Carlo Ertola, milanese, dopo aver fatto per cinque anni il soldato nella colonia, impiegò i suoi risparmi (1200 lire) colti van do un pezzo di terra a Sciabat, a un'ora da Che1•en. E seminò una quantità di roba, ma da un quintale di patate non ne ricavò che ottanta chilogrammi e da venti chili di fagiuoli non ne trasse più di mezzo chilo. Gli riuscirono discretamente solo l'aglio e le cipolle. Quar<1ntacinque capre che aveva comperate per l'allevamento, gli morirono tutte in seguito ad una epidemia. L'anno successivo s'attaccò alla dura come al prodotto più sicuro, ma le cavallette gliela distrussero. Ridotto senza un soldo, ebbe dai parenti una certa somma e tentò con essa l' impianto di una stalla, ma l'epizoozia lo rovinò nuovamente. Nè chi disponeva di maggiori mezzi mi diede migliori informazioni. I ricchi frati lazzaristi francesi coltivano a Scinnara, a un'ora e un c1uarto da Cheren una vasta tenuta. E Frère Joseph, il capo di quelle coltivazioni, mi diceva al princip;o del 1894: - Da dodici anni il raccolto è magrissimo in causa delle cavallette: la Congregazione non ricava che orzo, legna e dura, quando le sauterelles glielo permettono. Altri campi di dura sono coltivati nelle vicinanze dagli indigeni per conto del governo, cogli stessi incerti risultati. Qualche anno prima, sotto gli egiziani, alcuni speculatori a vcrnno tentato nella conca di Cheren la coltivazione del cotone e del tabacco: quest'ultimo è rispettato dallo cavallette. Risultò che tanto il cotone come il tabacco, venivano, ma di qualità. scadente, tale cho non meritava la spesa del trasporto fino a :\Iassaua. E gli esperimenti furono abbandonati. A breve distanza dal forte di Cheren, dove scorre un filo d'acqua perenne, il Daari, prosperano gli orti, i legumi vengono benissimo: non essendovi però mercati dove venderli, non se ne colti va che la quantità sufficiente per i 8isogni del presidio.
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