La Rivoluzione Liberale - anno IV - n. 25 - 21 giugno 1925

b - IL BARETTI Quindicinale di letteratura Editore PIERO GOBETTI SETTIMANALE EDITORE PIERO GOBETTI - TORINO VIA XX SETTEMBRE, 60 NOVITÀ DELLA SETTIMANA A. TILGHER ,.bbonamtnlo annuo L. 10 - Eatero L. 15 Un fflil»wO L. 0,60 ABBONAMENTO: Per il 1925 L. 20 - Semestre L. 10 - Estero L. 30 - Sostenitore L. 100 - Un numero L. 0,50 - C. C. POSTALE Lospacciodelbestionetrionfante ~,-::1.r1. ~i"':u,::ca~/fti_ ;: Anno IV N. 25 21 Giugno 1925 SOMMARIO. - La crisi belga. - A. P.: Donali. - A. Parini: Malleolli amminislralore. - p. g.: La Jlclroliera romanlic11. - Pre-riso.-gimento: p. y.: I concordati. - G. s,,lvemioi: La poli lica estera della Destra. - Lealtà tra oppositori. La crisi belga La cns1 belga coincide con la crisi del partito cattolico. Questo partilo ha un passalo brillantissimo. Nato dopo le assemblee storiche di Malines - scrive A. Melot nella « Revne Générale " - ringiovanito dal Congresso di Liegi, aveva dimostrato coi fatti di sapersi adattare allo stato sociale nato dalla rivoluzione francese. U parl!ito cauolico belga si preoccupò, sin dal suo sorgere, di guadagnare il cuore del popolo; dal 1884 al 1914 potè governare ininterrottamente senza il concorso di altri, ~n uno spirito eminentemente nazionale. Scoppiata la guerra, si ebbe anche in Belgio l':ir1ione sacra. Firmata la pace, l'unione sacra venne subito a mancare. Ci fu per altro un 11overno tripartito prima: un governo di liberali e di cattohlci dappoi. Ora si è in piena crisi. Il Conte de Broqueville cercò di superarla, senza riuscirvi. Van de Vyvere accettò di formare un ministero dai piedi d'argilla. S'inizia un periodo nuovo nella descrizione ,le] quale Augusto Melot si mostra assai preoccupato. Egli mette in rilievo l'abilità di Vandervelde, che converse i suoi sforzi a rompere l'intesa cattolico-liberale, coadiuvato in ciò dagli estremisti di destra. Nè i cattohlci nè i liberali parvero indovinare questa tattica. Gli uni e gli altri proclamarono fieramente che sarebbero andati alle elezioni, liberi, indipendenti, a bandiere spiegate, senza compromessi, con tutto il loro programma. Ottenuta la vittoria elettorale, i socialisti che erano già 1iusciti a stacca,·e tl liberali dai cattolici, cer- • carono di spezzare la compagine dello stesso partito cattolico. Vandervelde si rivolse .ti democratici cristiani proponendo loro un governo su base democratica. Il g:iuoco non riuscì, poichè era stato stabilito che i cattolici di tulle le gradazioni avrebbero fatto blocco; ma poochè i liberali continuarono a fare banda a parte e un governo omogeneo cattolico non è più possibile, ecco che Augusto Melot annuncia che presto o tardi la democrazia cristiana tenterà l'esperienza di un governo coi socialisti. Se ciò si verificasse, il partito cattolico belga verrebbe a trovarsi diviso, come in due tronchi. Da una r.arte gli elementi conservatori, dall'altra • democratici cristiani. Più tardi potrebbe effettuar.si il blocco libero-socialista.La situazione, per chi ne è al corrente, non è gaia davvero; ma d'altra parte, ideologicamente, questa divisione esiste già attualmente. Tra i cattolici che fanno capo al « XX Sièçle " ad esempio e quelli che inalberano la bandiera della democrazia cristiana, esiste politicamente W1 abisso. Si potè colmare questo .abisso ancora nelle ultime elezioni, facendo appello ali~ fede religiosa comune: ma la fede religiosa, quando sul terreno politico e sociale la divisione è profonda, non può sempre accomunare nel voto uomini che sono }Joliticamenle agli antipodi. Così ad esempio i conservatori del « XX Siècle " e della « Revne des idées et des faits » cantano ogni giorno su tutti i toni che la democrazia politica è il male, che il Parlamento ne è la necessaria conseguenza, che le esperienze d'Italia e di Spagna possono essere la salute dell'Europa. Dal campo democratico cristiano si sostiene la tesi precisamente opposta. La democrazia policica non solo non è il male, ma deve divenire di più in più una realtà cosciente. Si può imprecare contro il suffragio universale, ma il mondo cammina e il ritorno !l. Luigi XIV non è più possibile. Anche un << governo forte )) o autocratico non potrebbe più mtlntenersi senza il consenso almeno tacito delle masse, per quanto possa stabilirsi talora p~ù o meno per sorpresa e arrestare qualche volta nel suo sviluppo una democrazia che non ha ancora profonde radici in un popolo. È evidente che di fronte a due correnti diametralmente opposte sul terreno politico, anche l'idea religiosa, quando non sono immediatamente in giuoco 1e convinzioni religiose, uon potrebbe realizzare l'unità oolitica. La- sostanza del problema non si può dunque risolvere con critiche alla proporzionale. La proporzionale in Belgio ha avuto il merito di chiarire una situazione ~he attende svolgimenti. Una collaborazione coi liberali non pui> non essere pericolosa per Vandervelde. La >J causa della democrazia è anche in 13elgio legala alla necessità che il partito <·attolico si divida. La democrazia crisLiana belga non è ai suoi primi passi: ha le sue ei,pericnze di lotte sindacali e di politica operaia. Ora i] movimento operaio è naturalmente in Belgio l'elemento dominante della situazione. La guerra ba interrollo lo sviluppo della lotta politica. Ha permesso l'equivoco Deslrée. Ha parlalo in primo piano i gruppi di corte e del clericalismo. Ma non si può pensare che un governo stabile sia possibile in Belgio senza l'in/luenza delle masse operaie. Se le due ali <lei partito cauolico si presentano divise alle elezioni, Ja pari.e democristiana sarà in prevalenza. Attuando un governo di collaborazione tra il proletariato cristiano e il proletariato socialista, il Belgio compirà un esperimento di grande imporlanza del quale non potranno non tener conto g]i Stati in cui esistono ancora larghe mass~ cristjane. DO-NATI Giuseppe Donati, di famiglia piccolo-borghese, ehbe i natali a Granarolo di Faenza. Fece i primi studi sollo la guida di Francesco Lanzoni - chlaro maestro, agiografo e storico professante il metodo positivista - a Faenza. Poi fu uno dei pionieri del movimento democratico-cristiano in Romagna. L'opera di proselitismo per la Lega Democratica Namonale non era facile in Romagna data l'opposizione dei repubblicani e difficile particolarmente in Faenza, dove, con altri metodi, l'opposizione del partito clericale - allora dominatore assoluto della situazione amministrativa locale - non era meno decisa. Eligio Cacciaguerra e il Marchese Ghini a Cesena; Ellore Poggi pollini t Fulvio Milani nell'Imolese e Basso Bolognese; Giuseppe Donati, Piero Zama e' Venanzio Gabriotti a Faenza riuscirono per altro ad inquadrare nelle sezioni demo-cristiane la parte miglri.ore, se non la più numerosa, della gioventù cattolica cresciuta nei modesti circoli parrocchiali di 1·icreazione. Il Donati ebbe allora à collaboratori alcuni ex seminaristi fuorusciti dal seminario fa enti no io seguito alle ispezioni dei revisor,i ecclesiastici, esecutori dei provvedimenti contro i niodernisti, ordinati da Pio X. Quesla sua co1nune attività con alcuni modernisti faentini fece diffondere la opinione che egli pure fosse modernista. In verità egli era soltanto contrario al conservatorismo politico della Chiesa. Uomo di volontà, energico, audace, temperamento squisitame11te politico egli rivelò subito buone qualità di condottiero e fu jl capo dei de1no-cristiani faentini i quali - sia che seguissero la tattica intransigente, o appoggiassero sul terreno politico e amministrativo i socialisti o sostenessero nel movimento sindacale e cooperativo gli elementi cattolici - diedero sempre esempio di dignità, di coraggio, di serietà e di onesti intendimenti. Qualcuno di loro fu bastonato dai repubblicani, altri perseguitato e danneggialo negli interessi economici dai clericali. Peppino Donali proseguì gli studi a Firenze nell'Istituto cli Scienze Sociali ed in quelh città fu accolto nel Cenacolo vociano. Ne «La Voce)) venne pubblicando numerosi articoli di ispirazione idealista e neo-hegeliana e scrjsse una critica alquanto violenta ciel melodo oggettivo e positivista ciel sno n1aeslro Francesco Lanzon-i. Pii, lardi, jn un bell'arLicolo, comparso ne « L'Avvenire d'Italia ", di quella sua critica fece sconfessione ponendo in rilievo la singolare -figura di norrto, di sacexdote, dell'egregio rellore del Seminario faentino. In argomento scrisse già Armando Cavalli con molta diligenza su quesLe colonne. A Firenze, maestro del Donati, divenne Gaetano Salvemini e con lni ehbe comune molta attività negli sLudi, nel giornalisn10, nella politica. Il suo storicismo, la sua fede democratica e, cristiana risultano dalla fusione dell 'insegnamento positivista di Monsignor Lanzoni col maLerialismo storico e lo storicismo di Gaetano Salvemini. Coi salveminiani egli è a volta a volta logicamente, anti-giolittiano, anti-lihico, lib~- ris~a, interventista e antifascista. La ripugnanza morale del Donati per il fascismo è tale in quanto il fascismo viene da lui considerato una reincarnazione del trasformismo giolittiano. Il suo fascismo è anche ant:rimussolinism0 e come tale ha origini più remote. Il Donati era già antimussoliniano nel 1910 quando Benito lavorava in Romagna iniziando i rivoluzionari forlivesi alle raffinate«.:~e ai capolavori sagraioli di entusiaSmo. La sua avversione per il Mussolini è questione di incompatibilità morale e di antitesi istintiva. Il Dona ti nemmeno nei suoi trascorsi giovanili .an1ò le sagre. Non fu e non è nemmeno oggi un trib1mo ed un oratore, benchè sia fortissimo polemist'!. Solo se egli parli in difesa della libertà, della giustizia od esalti il martirio delle vittime del fascismo, la sun parola si alz.a plastica e calda, fremente, e trasporla l'assemblea alla commozione. Interventista,' assolse interamente al suv dovere di soldato. Con Marco Ciriani aveva avuto comune l'iutervenLismo ed ebbe comune moha attività politica e sindacale quando fu nel Veneto nel1'im1nediato dopoguerra. Furono insieme candidati nelle elezioni politiche del 16 novembre 1919 - per il collegio di Udine-Belluno - alfieri del partilv democratico-cristJ:mo, che aveva scelto per contrassegno eleuora]e un araLro. In questa occasione Gaetano Salvemini, in data 25 ottobre, scrisse all'on. Ciri1 ani la seguente lettera di simpatia e di augurio per l'elezivne del Donati: « Io non ho la fede religiosa del Donali. O meglio, uon ho la stessa forma di fede reli• giosa. Egli è cristiano con1e te: cristiano dèl vero cl"istianesimo autentico di Cristo, il cristianesimo della libertà per Lutti, della git{- stizia per i deboli, della carità per gli uo1nini c01npagni cli dolore nella vita. Io appartengo a queJla religione stoica che non ha nessun dogma e nessuna speranza di vita futura, 1na ha comune col cristianesimo ;1 rispetto delle libertà, il bisogno della giustizia, l'istinLo della carità umana. Ebbene, dal sentimento di quesLe necessità morali, che è comune alla religione mia e alla vostra, che potrebbe far definire Marco Aurelio come cristiano e SanL'Agostino come sLoico, io sono spinto a desiderare ardentemente, ad augurare fervidamente che j lavoratori del Fritùi mandin..> alla Camera dei deputati, insieme a te, Giuseppe Donati "· L'esito della lolla fu favorevole solo a Marco Cii·iani, il quale venne eletto mercè il numero maggiore di voti aggiunti (3922) D di preferenza (894) ottenuti per la sua qualità di deputalo uscente e la conoscenza che si aveva di lui nella circosc.-rizione. Il Donati rimase soccombente con una votazione lus"inghiera. Egli ollenne complessivamente ,,oti 11.035 (di cui 10.495 di lista, 178 voli di preferenza e 362 voti aggiunti). Il partito popolare intanto - rafforzato dal successo riportalo nelle elezioni politichi, - riprendeva con fortona il tentativo della Lega Democratica Nazionale di creare in Italia un partilo cattolico autonomo. Il dottor Donati, sebbene con atteggiamento di riserva e di attesa, seguendo i democratici migliolini, si iscrisse al Partito popolare distaccandosi dall'on. Marco Ciriani, ormai passalo nei ranghi del Partilo riformista. Nelle elezioni poljliche del 15 maggio 1921 il Partito lo incluse nella lista dei candidati per la circoscrizione di Venezia-Treviso. Riportò voti 66.601 ( dei quali 4592 voti di preferenza e 539 voti aggiunti), ma non fu eletto. Si occupò ancora nel Veneto di problemi ed opere di assistenza sociale, poi la fiducia dei dirigenti del Partito lo chiamò a Roma alla direzione de Il Popolo. Nel Partito popolare egli consolidò e concretò la sua concezione giovanile della democrazia. Per merito suo e di Don Sturzo i popolari passarono decisamente all'opposizion~ contro il fascismo. Come direttore del quotidiano popolar-3 egli si è dimostralo giornalista di primo ordi~e. Non è qui il caso d'insistere sui diven1 momenti della lotta condotta dal Donati contro il fascismo dopo la marcia di Roma fin'.l ad oggi. È doveroso però riconoscere che egli ha saputo farne una questione di carattere e di intransigenza opponendo agli avversari un esempio di dignità con resistenza tenace, .limostrando capacità singolare di iniZ"iaLiYJ~ coraggio e eccezionale senso di responsabilità. A. P. Nei prossimi numeri: P. FILODEMO: Antonio Labriola. A. CAVALLI: Proudhon e l'unità italiana. A. CAVALLI: Cuoco. E. GROSSI: Giusti politico. E. GROSSI: Tommaseo protestante. M. BORSA: La politica estera di Ma.eDonald Politici d'oggi: Herriot. B. RADICA: Trumbic. IL BARETfI È uscito il n. 10. Sommario: PIETROM1GNOSI: Stile del Settecento - L. P1GNATO: L'Ottocento francese: Il Parnaso e Verlaine - J. DE MEN ASCE: Synthèse du Snobisme - M. GROMO: Opere e ciance: Del teatro italiano - N. FR.-L1\'K: Aspetti del nuovo Mac Orlar, - R. FRANCHL: Cine,na., scuolci di pittura. Il n. 11 sarà dedicato al teatro tedesco del Novecento. Il Baretti è la sola rivista italiana che esamini con cootinuiLà e originalità il moYimenlo letterario europeo. È la sola rivista letteraria dei giovani del dopo guerra. Pubblica sol1anlo articoli originali di scritLori italiani, francesi, tedeschi, inglesi, boen1i, ecc. Non è un 'antologia nè una rivista di an1ena lettu.Ta, ma rappresenta un movimento di idee. È una integrazione necessaria di Rivoluzione Liberale. Dal Baretti è già nata la collezione di « Scrittori del Baretti ,i. Preparano e annunciano la leLteratura di do1nani. •

b 102 Matteottiamministratore ~iacomo Ma_treotti .. ·:. grazie a qualche baiocco s~arso in alcuni paesi - così egli diceva sorridendo - potè essere amministrato.re in parecchi Comuni del Polesine (Fratta, V1llamarzana, San Bellino, Badia, Lend inara, Rovigo, ccc.) in giovane età. Nei Comuni di Fratta e di Villamarzana ebbe anche le fm'.zioni di assessore e di sindaco. Partecipò a~s1du_ameute ai lavori del Consiglio provinc,ale 111 rappresentanza del mandamento di Occhiobello: leader della minoranza socialista. Ebbe la carica di presidente della Dept~lazione provinciale per brevi giorni nel 1914. Escluso dal Consiglio provinciale per sopraggiunte sue incompatibilità, vi 1itornò con le elezioni dell'autunno 1920 che diedero ai socialisLi 38 seggi su 40. Fu membro dei Consigli amtniuistrativi di molti enti ed istituti locali. I problemi scolastici furono O"· getto di suo assiduo appassionalo studi~. Ope'.·a diligenl~ egli diede nel Consiglio provrnciale scolastico coi comp.agni Gastone Costa, Aurelio Balotta e Dante Gallani. La fondazione cli biblioteche popolari e scolastiche il riordinamento delle scuole primarie dei Comuni rurali ebbe da lui grande impulso. Oltre ai problemi della istruzione popol.are si dedicò principalmente a quelli della finanza comunale. Pubblicò parecchi saggi appunto sulla finanza .locale, collaborando al libro :Nel Comune socialista, edito a cura del giornale Avanti! Scrisse uno studio, mirabile frutto di profondi studi amministrativi: Il Regolamento per le imposte comunali. Fu per alcuni anni membro del Consi«lio direttivo della Lega dei Comuni socialisti, della quale tenne anche con molta solerzia l'ufficio di segretario. Nel 1920 promosse l'istituzione di un Ufficio di consulenza legale e di ispezion,, amministrativa per i sessantatrè Cornuni del Polesine, allora tutti amministrati dai socialisti, _facendo affidare la direzione ad un esperto segretario comunale - il rag. dott. Ezzelino Faccini - e al deputato provinciale avvocato Enea Ferraresi, già sindaco di Stienta, co1npetentissimo in materia amministrativa. Il Convegno nazionale dei rappresentanti di 250 Comuni socialisti, tenutosi in Bologna - nella sala del Liceo Musicale - nei giorni 16 e 17 gennaio 1916, gli offrì l'occasione di farsi conoscere come studioso competente di problemi municipali. Il sindaco di Milano Emilio Caldara, aveva terminato di illustrar; la sua relazione sul tema: « Le finanze comunali di fronte ai pesi tributari da parte del Governo ", quando il Matteotti chiese la parola e, ottenutala, oppose al" punto di vista del Caldara, fondato sull'esperienz,: milanese, il suo di esperto amministratore di almeno una decina di comunelli e di controllore ed ispettore di una trentina. Il sindaco milanese, per fare approvare la sua relazione, dovè - non senza disappunto - acconsentire che le conclusioni della sua relazione fossero modificate per quanto riguardava i Comuni rurali. Alcuni dei maggiot-ent1 socialisti furono scandalizznti dalla mancanza di tatto del Matteotti che Eon si era peritato dal criticare la relazione di un uomo in fama di competentissimo in materia amministrativa, ritenuto quasi infallibile! Il Matteotti era un amministratore sevedssimo. Per comprendere questa severit~1 non bisogna dimenticare che era figlio di ru1 rigido conservatore parsimonioso nell'a1n1uinistrazione del patrimonio domestico ed allievo dell'onorevole prof. Alessan,ho Stoppato, conservatore di stile e di razza, parlalllentarc fra i più rappresentativi, militante nelh destra clerico-moderata. A quell'esempio, a quella scuola egli era cresciuto. Anche senza mandati precisi si era fatto con trnllore di pubbliche Amministrazioni. Era l'incubo dei sindaci e dei segretari comunali per la sua diligenza di spulciatore di atti e di bilanci, per le critiche inesorabili, severissime. I bilanci co~unali dovevano essere compi-r lati con onesta 111 realistica con·lSponclenza con le possibilità finanziarie del Municipio. Economie fino all'osso, niente debiti. Se per opere pubbliche di grande utilità e per le scuole mancavano i fondi, si provvedesse aumentando le tasse fino ai limiti rons,,ntiti dalla legge. Compilava lui stesso i prGgetti dei bilanci per i Comuni dove temevs che le sue istruzioni non fossero applicate per l'ostruzionismo dei segretari com1u1ali, i quali approfittavano talvolta della inesperienc,.1 dei sindaci per farla da padroni. I segretari Comunali maneggioni e faccendieri di alcuni Comuni, gli impiegati facili e tolleranti, lo consideravano come un n~mico. Egli non aveva molta stima del ceto impiegatizio e vedeva con sfiducia l'accorrere degli impiegati nelle leghe confederali e nelle sezioni socialiste appena la fortuna arrideva ai socialisti. Avrebbe voluto che fossero sistematicamente respinte le loro domande di ammissione alla lega e alla sezione. Che cosa poteva fare per gli impiegati un partito operaio classista? Egli considerò sempre con scetticismo il movimento per la conquista dei ceti medi delineatosi nel partito qualche anno fa, oggi molto caldeggiato in seno al partito unitario. Si trattava insomma di categorie economicamente improduttive, il miglioramento delle cui condizioni era di pendente dallo spoI.A RIVOfUZIONE TJBFRALE starnento dei redditi e da altre caus" complesse. Urgeva invece provvedere per i lavoratori manuali già proletari. I ceti medi si sarebbero proletarizzati certamente - se pur era possibile - solo dopo un lungo processo cli tempo. corno Matteotti, il rruale fin dal 1910 aveva già scritto in La Recidiva: " Per l'Italia nostra, troppo ricca di delinquenti I' di analfabeti insieme, nelle disgraziate rr>gi()nim<~ridionalit ci permettiamo un uniro ritto di fede, contro ogni dubbio eh" dia VPSte .'lci,~ntifica,fJll'in~rzia, al malvolere; cr,~dia,no all'utilità dcll'i.,truzione, credir.1,mr.1, con l'antico greco sapiente, che sol chi conosce il bene possa operare il bene, crediamo all'istruzione capace di richiamare a più larghi orizzonti il pensiero e l'attività umana, r-rediamo che essa possa insegnare l'altruismo com,:, l'ottima forma di egoismo JJ. ALoo PARINI. Quando tutli gli impiel(ati comunali dornandaronO nuove concli:z;ioni d·i lavoro, egli fece deliberare dalla Lega dei Comuni provinciale che le trattative si ,;volgessero su base provinciale, ed egli stesso vi prese parte attivissima dimostrandosi tcnacissimo neJJa difesa degli interessi dei Comuni. Le trattative laboriosissime concluspro ad un rnpitolatotipo da introdursi in tutti i Comuni per deliberazioni singole. In questa circostanza gli impiegati di alcuni Comuni, solitamente re1nissivi e ossequiosi nei confronti dei vecchi amministratori clerico•modcrati, si dimostrarono ballaglieri e aggressivi. LA PETROLIERA ROMANTICA Il Matteotti aveva già collaborato in riviste e giornali come: La rivista di diritto e proced1,1,ra, dirella daH'on. prof. Eugenio Ji'lorjan di Venezia; Lu lotta,, l'Avanti!, L'idea socialista, ecc., 1na i suoi magistrali articoli su temi di bilancio comparvero nella Critica Sociale solamente quando aveva studiato e lavorato per anni ai bilanci comunali. Con qucst~ base d~ seria preparazione egli ~i pose in evidenza al1a Can1era dei Deputati per i suoi discorsi pronunciati contro i progelli Giolitti del 1920. Membro della Giunta del Bilancio e della Commissione di Finanza, stese parecchie relazioni, tra cui quella al bilancio del1'entrata del 1922. Segretario della Commissione per la riforma burocratica, scrisse frequenti relazioni cli minoranza e per la minoranza fu relatore contro la concessione dei pieni poteri al Ministero Mussolini. 1 Rigido difensore dell'erario in materie di spese, fu anche tenace propugnatore della libertà in materia doganale. Il liberismo doveva essere una scuola di n1aturità polilica e sindacale. Così egli si oppose sempre ai tentativi degli agrari polesani di avere l'adesione dei lavoratori nel sollecitare provvedimenti protezionistici dal Governo. Una volta sola, nel 1920, derogò dal suo rigidismo liberista quando si trattò di aiutare alla conclusione di un patto di lavoro per le risaie del Col"une di Porto Tolle. Si trattava di indurre i conduttori delle valli coltivate a risaia a non abbandonare la coltivazione. L'abbandono voleva dire far ritornare la valle a palude coi suoi miasmi e la malaria, la disoccupazione per circa tremila lavoratori. Per queste considerazioni egli .acconsentì a presentare al ministro dell'Agricoltura una Commissione di conduttori vallivi e di lavoratori , chiedente - ed ottenne - un lieve aumento del prezw del risone limitatamente alla produzione dell'annata nel Comune di Pm·to Tolle. Non volle però avere nessuna parte nella trattazione del patto e fu lieto che io assumessi intera la responsabilità della démarche presso il ministro. Perchè egli mai ebbe in comune con certi riformisti la complicità nel protezionismo. Nel suo ostinato liberismo egli aveva due alleati nel gruppo socrolista: Nino Mazzoni e Emanuele Modigliani. Di quest'ultimo spiaceva al Matteotti l'abilità nelle manovre parlamentari, la scaltrezza curialesca, il possibilismo collaborazionista, ma il vederlo al suo fianco nelle battaglie liberiste dissipò ogni aprioristica antipatia. E Giacomo si legò di affettuosa amicizia al Modigliani del quale ebbe poi sempre molta stima. Per il Matteotti il problema della redenzione operaia era un problema di produzione e di capacità. Si vale per quanto si produce e si produce per quanto si sa. Bisognava quindi educare, istruire il proletario. Come il Proudhon, egli chiamava gli operai all'emancipazione per mezzo del¼ :istruzione. Nel suo Polesine in questo campo vi era molto da fare. Dopo la grandiosa bonifica della terra, vi era da compierne un'altra non meno importante, quella dell'uomo. In questi ultimi anni l'istruzione ha avuto nella plaga fra il Po e l'Adige un notevole incre1nento, ma al tempo della prima agitazione dei contadini al grido: la boie (1884), vi era ancora colà il sessanta per cento della popolazione analfabeta! Giacomo vedeva nella scuola Llll formidabile strumento di elevazione, di indipendenza e di redenzione proletaria. Ma i lavoratori facessero da loro stessi non si affidassero al governo o alla bo1·ghesia. I diseredati si sollevassero con le loro forze. La filantropia, la beneficenza non erano che elemosina poco utile perchè non eliminavano le sventure sociali e nemmeno bastavano a lenirle. Peggio, funziona-.rano talvolta da sussidio sobillatore di fanmùlaggine. Marxista, egli pensav.a col grande di Trcviri abbisognru:e per pri1no all 'nomo la dignità più ancora del pane. La fatica dei migliori, degli uomini di fede, doveva essere rivolta all'educazione delle masse, prima ancora che ad ottenere il loro miglior.amento economico. il salario sarebbe aumentato invano ove l'uomo non avesse perfezionalo la propria educazione. Formare !'nomo ciel lavoro per formare la classe e :innalzarla. La forza collettiva della massa insieme alla capacità per organizzare le forze della produzione e preparare alla gestione sociale. Su questa via di conquista avviarsi con passi progressivi. Non im• porsi mai, ma conquistare e convincere con la propria virtù. Questo il pensiero di GiaL'esule. Rosa Luxemhourg è in Svizzera, esule, non anrora ventenne. Dame hystérique et aca~ rilltn~ la insultano j suoi compagni soc·iaJ-isti polacchi, la rinnegano perché non è patriota, perc-bè da buona marxista non ba voluto oentir parlare di ricostruzione dello Stato polacco. Il s110esilio durerà la sua vita. Sofo nel 1905 rivide Varsavia per qualche sellimana sulle barricate. Ma in nesr,una lellera si trova un suo rjm~ pianto di esule. f,; una donna forte; capace rli stare sedici ore a tavolino surle statistiche. Vuo·le e sa essere una vera rivoluzionaria, al di sopra delle cose umane, patria, famiglia, vita privala. Nessuno può dir nulla delle sue debolezze, della sua vita sentimentale, delle sue vicende pratiche. Il pettegolezzo non l'ha polula toccare, se non con il facile insulto di isterica. Niente confidenze di miserie femminee; delle difficoltà della sua vita solitaria nessuna lamenteJa. Tutto ciò sembrerebbe troppo vicino a un vigoroso ideale, a una falsa e arida costruzione: ed è invece umano come il fondo romantico dello spirito di Rosa, come la sua monelleria di fanciuJla abbandonata al suo temperamento e alla sua spensierata gioia di vivere. La petroliera gioirà in carcere di coltivare fiori come si abbandonava una volta libera all'aperto nei momenti « che la vita ci formicola alla punta delle dita e si è pronti a qualunque pazzia "· Dopo mesi di prigionia si firma: vostra sempre ed incoreggibilmente felice. Con candido entusiasmo legge a quarant'anni un libro di geologia, come una rivelazione e si lamenta « come ci resta poco da vivere e tanto da imparare!». Conservò questa esuberanza di giovinetta sino all'ultimo giorno e fu pittrice, propagandista, letterata, economista, conferenziera, com~ battente, traduttrice; ora osservatrice ironica di particolari, ora umorista sottile, ora preoccupata di meditazioni metafisiche, ora intenta alla strategia rivoluzionaria. Un inguaribile romanticismo le diede il necessario distacco dalle cose, la superiorità sulle contingenze: « Noi viviamo in tempi agitati in cui tutto ciò che esiste è degno di scomparire ». Ecco un suo ricordo, forse il solo della casa paterna. Un mattino prima del levar del sole. Era il momento più bello « prima del risveglio della vita stupida, rumorosa, assordante nella grande caserma/di affitto. La calma augusta dell'o/a mattutina si stendeva sulla trivialità del selciato: in alto nei vetri scintillavano i primi ori del giovane sole e più alto ancora ondeggiavano piccole nuvole rosee, prima di sciogliersi nel cielo grigio della grande città. Allora io credevo ferman1enle che la << v~ta », la << vera J, vita fosse in qualche lontana parte, laggiù, di là dai tetti. Da allora io cammino a cercarla. Ma essa si nasconde sempre dietro qualche tetto. Insomma ogni cosa si è presa gioco di me, e la vera vita non è restata forse laggiù in quel cortile, dove la prima voìta ho letto con Antoato Le origini dell.a civilta? >). Questa scontentezza di sè le pare necessaria per agire. E infatti chi considera mai la sua opera se non con il sentimento della scontentezza di sè << a meno che non sia un deputato al Reichstag o nn mandarino della Commissione generale dei Sindacati? )). Il suo pessimismo ha un 'ispirazione di idealismo e di grandezza morale. « Incomprensibile e :insopportabile - scrive dm·ante gli anni di guerra eh' el1a passò tutti in carcere - mi riesce questo completo smarrirsi nella miseria quotidiana. Guarda la fredda serenità con cui Goethe si teneva al di sopra delle cose. Inunagin.ati a che cosa ha dovuto assistere dm·ante la sua vita .... E con quale tranquillità, con quale equilibrio intellettuale egli continuava durante questo tempo i suoi studi sulla metamorfosi delle piante, sulla teoria dei colori, su mille cose. Io non ti domando di fare della poesia come Goethe, n1a la sua concezione della vita - l'univer~ salità degli interessi, l'armonia interiore - ognuno può darsCla o almeno cercarla. E se tu mi dicessi: - Goethe non era un politico rnilitante - li risponderei: - Un militante deve pii, di ogni .altro cercare di mettersi al di sopra delle cose, altrimenti egli affoga sino alle orecchie e nel primo fango che capila ,>. Perché la sua politica era una cosa sei-ia ed eticamente motivata, Rosa Lnxembourg ha potuto vivere la sua vita in carcere e in esilio. Le barricate erano la sua poesia. Uno spirito goethiano deve guardare nn poco la vita così, dall'esilio; e in Rosa Luxembonrg l'equilibrio olimpico è appunto nna sola cosa col disinteresse dell'esule. Di questi grandi motivi ideali ella nutriva il suo esilio goethiano. La rivoluzionaria. La petroliera ai concede, nelle lettere, trei;ne, riposi di femminilità. « Le donne! per quanto sia sublime il loro spirito vedono le eravatte prima di ogni altra cosa! J), oppure: " Ho parlato all'aria aperta davanti a duemila persone in un giardino con luci di molti colori: era molto romantico 1,. M.a nelle questioni di idee e di partito era inesorabile. Dice Luisa Kautsky, moglie del r, rinnej'.!ato ,, e perciò teste non sospetta: " Sp_ecialmente nei conflitti tra compa,,mi di partito, ella flagellava ogni esitanza come vusillanimità) ogni conceesione r;ri-me deholezza, ogni velleità di conciliazione come vigliaccheria, ogni tendenza a patteJ!h,jare come un tradimento. La sua natura appassionata la faceva andare diritto al fine inte,rrale. Aveva orrore di tutte le concessioni anche di fronte agli amici politici più vicini "· Perciò gli indulgenti polacchi la chiamavano: ,, danie hysterique '!t acariUtre )); ma j] fascino che esercitava era dovuto al fatto che ella fn sempre pronta a subire tutte le conoeguenze dei suoi atteggiamenti. Quando i suoi amici la esortavano a scrivere dal carcere polacco al presidente Witte o al console tedesco, rispose: « Questi signori aspetteranno un_ pezzo che una socialdemocratica (1906) chieda loro protezione e giustizia. Viva la Rivoluzione! ». Pregava che nessuno si rivolgesse « per esempio a Bulow; in qualunque ca.so io non voglio dovergli nulla, perchè non potrei più nella mia propaganda parlare di lui e del governo liberamente come si deve )>. 1;enera per un romanticismo di cospiraton sapeva poi porre i problemi della rivoluz!one con realismo marxista. Dopo l"esperienza deUa prima rivoluzione russa fu decis2mente leninista, anche quando combatteva Lenin. Le sue osservazioni sul 1905-906 sono penetranti. Per es.: « La polizia è impotente contro i movimenti di masse )>. Per giungere d una situazione rivoluzionaria occorre che << l'antagonismo tra !e classi sia approfondito, i rapporti sociali accentuati e chiariti ». Rosa Luxembourg accetta sin dal 1906 i con.siali di fabbrica: <e Altro fenomeno interessa;te della rivoluzione: in tutte le officine si sono costituiti spontaneamente dei comitati eletti dagli operai che decidono sn tutte le condizioni di lavoro, assunzione licenziamento ecc. >>. Ella nota come con;ro i consio-li di fabbrica gli intraprenditori cerchino di intendersela piuttosto con gli stessi partiti sovversivi. In questa eroica .fiducia nelle masse, in questa sicm·ezza della loro ,olontà di liberazione, Rosa Lu..x.embourcrs'è preparata a morire sulle barricate. Er~ convinta che le masse fossero/ più mature dei loro capi. « Perdio, la Rivoluzione è grande e forte a meno che la Socialdemocrazia non la mandi in rovina! "· E nel 1917: « La socialdemocrazia di_ questo Occidente superiore e snluppato e composta di abbietti poltroni che, spettatori pacifici, lascieranno i russi a dis• sanguarsi >). In quattro anni di carcere il suo temperall!ento silenzioso si era nutrito della speranza dell'azione. La pensava fantastic.ando · come si fantastica quando si è da lungo te~po in. carcerati. « Preferirei vedere la storia del mondo diversamente che attrarnrso le inferriate )), osserva scherzando la prigioniera. E si dimentica l'oìimpica serenità una sola volta nella pagina commossa in cui è ricordato Liebknecht. « Ma errare liberamente laggiù, per i campi, o anche per le vie, fermarmi in aprile o in maggio davanti a ogni giardino, a bocca spa~aucata, ossen~are il rinverdire degli albe. rell1 che hanno ciascuno le loro gemme volte a loro modo, vedere l'acero seminare le sue piccole stelle giallo-verdi e nascere, sepolti nell'erba, i priori aster, le prime veroniche, questa sarebbe oggi per me la gioia suprema; io non domando, non invoco altro, purchè possa passa1·e così anche una sola piccola ora per giorno. Comprendimj bene! Non dico di limitarmi in questa contemplazione e rinunciare alla vita attiva e pensante. Voglio dire che vi troverei la mia felicità personale e sarei poi armata e fatata per tutti i combattimenti e tutte le privazioni)>. Così nel carcere si iniziò al martirio. p. g. Oltre alle Lettere dalla prigione 1 si vedano nella bella collezione del Rieder (Paris, 7, Piace Saint• Sulpice): Les prosateurs étrangers modem.es; ROSA LuxEMuounc: Leures à Karl et Louise Kautsky.

LA RIVOLUZIONE LIBERALE Prerisorgimenfo I CONCORDATI tasse. Era una forma dell.a rivoluzione nazionale contro il cattolicesimo internazionale. La lotta per un principio un:ico di sovranità si affermava nella questione dei tributi, del foro e del diritto di asilo. Queste materie rim.asero in discussione dal '27 al '92, e ,J buon diritto dei principi riusci a prevalere. Lo Stato sgominava Je resistenze an listatali, anarchiche del feudalismo ecclesiastico. Non si poteva concjJjare con l'esistenza c.Jj una gju~ stizia lajca, esercitata da organi stata]i, Ja persistenza barbarica di un dhitto d'aajJo che rappresentava una vera e proprja autorità in contrasto con la legittima. Era giusto che 11 privilegio del foro ecclesiastico fosse almeno limitato (1727-1742), dato <;he ancora il Governo non aveva forza bastante per aho]ir]o. I provvedimenti contro le immunità e le esenzioni <lei benefici ecc!esjagtjci poi rientravano in Lutla ]a po]jLica, arditamente intrapresa, di unificazione dello Stato e di rm~uzzamento delle pretese delle classi dominanti e privilegiate. Il concordato del marzo 1727 e quelJo del 1728 autorizzavano Villorio Amedeo II ad esigere tributi dai beni che l.a Chi.esa avesse acquistati dopo iJ. 1619; e nel 1783 Vittorio Amedeo III e Pio VI convenivano di assoggettare a tributi nella misura. di due terzi anche i beni acquistati prima del 1619. L'opera dei principi sabaudi, nei conflitti di giurisdizione con la Chiesa durante il Settecento, è tutta cli carattere politico senza pretese religiose e senza intransigenze rivoluzionarie. Gli storici, da Oriani a Ruffini li accusano cli troppa moderazione. Sn Vittorio Amedeo II pesa l'onta dell'esilio del conte Radicati, su Carlo Emanuele III il tradimento e l'arresto di Giannone. Ma a guardare le cose sul serio è proprio il caso dei carnefici che cospu:ano con le villime. Se infatti per una lotta religiosa chiara e uetla mancava tra noi il fondamento indispensabile di una coscienza nazionale, Vittorio Amedeo II col garantire l'indipendenza dello Stato dalle pretese del Vaticano lavorava appunto per le premesse. I principi di Savoia guardano all'avvenire, ma tuttavia con moderazione e immaturità. Seguono il secolo nella lotta contro i Gesuiti; seno i primi a togliere loro le scuole. La tendenza del primo re si volge a deprimere 1 sovrani poteri dei nobili e degli ecclesiastici, per stabilire l'unità e l'organicità dello Stato: le parvenze democratiche servono all'assolutismo. Nia bisogna convincersi che solo l'assolutismo riusciva in quelle condizioni ad operare in una direzione laica. Ecco che almeno per questo aspetto il despoU! lavorava per la rivoluzione. Senonchè una volta rassegnati a ignorare la libertà e a non proclamare la tolleranza non dovremo stupirci di vedere poi il re scendere ai ripieghi dei concordati, i quali significa'ndo un venire .a patti, lasciavano in discussione la stessa autorità statale. Cosicchè due secoli di esperienze ebbero nn valore laico, appunto perchè acuu:0110 le menti e le attenzioni, abituarono i diplomatici a resistere al Vaticano e ad imporgU le riforme che miravano a seppellire il potere temporale. Si trattava cli preparare gli uomini, i combattenti: intanto si ~arebbere, maturati i programmi e le idee. 1 L'equivoco contro cui si trovaVano a lottare i principi cli Savoia era una tradizione d; ossequio al Pontefice e di rapporti inguaribilmente ispirati all'idillio tra le due autorità. Papa Nicolò V aveva concesso nel 1451, quando Amedeo VIII rinunciò alla tiara, il famoso indulto e i duchi avevano riposato da allora snlla tranquillità di un potere riconosciuto, esteso sino all'autorità -d; dqr riconoscimento ai dignitari ecclesiastici del proprio Stato. La prerogativa era ripagata ad usura dall'ossequio e dalla sottomissione continua. Nelle sfere ecclesiastiche si riteneva che pochi cattolici fossero così concilianti e fedeli come i buoni sovrani piemontesi. È indubitato che proprio a Vittorio Amedeo II spetti la responsabilità di avere capovolta la situazione; ma il secolo che lo precedeue non vi fn del tutto estraneo. La dominazione francese aveva portato in Piemonte i liberi usi della Chiesa Gallicana. L'istituto dell'appel comme d'abus diretto a consolidare l'autorità sovrana contro le invadenze della giurisdizione ecclesiastica fu portato a Torino nel 1539 da Francesco I, ed Ema1mele Filiberto si affrettò a mantenerlo e :;. regolarlo nel 1560. Una seconda esperienza Ji carattere liberale all'estero si potè fare 11 Re, nel tempo che tenne la Sicilia. Gli intenti laici nascevano insieme con la liberazione dal provincialismo. E non è senza interesse notare-. con1e la r1vùlta contro la Chiesa cattolica venisse anche in Piemonte a coincidere con le prime timide manifestazioni di carattere democratico. E nelle Assemblee rappresentative che si parla la prima volta di anticlericalismo per opera e ispirazione del Terzo Stato. Si domanda una refforrnation des ttbbuz et excetz ininioderez ecclesiastiques, tant des prelatz que inferieurs, si protesta contro le ingiustizie quilz se commecte~t en le stat ecclesiastique cn abusant de leurs pretendus privileges. Da questi lamenti alle proposte positive di Radicati non v'era troppa distanza e infatti i propositi di riformare il clero nacquero e si diffusero quasi naturalmente. Tuttavia era più facile ottenere lusingando che minacciando. Il riserbo dei governanti piemontesi corrispondeva ad una profonda ragione di Stato, a una specifica esigenza Ji espansione che consigliava una politica di dignità verso il Vaticano, ma imponeva insieme la necessità di evitare nuovi nemici. D'Ormea e Bogino furono i diplomatici di questa situazione, dalla quale nacquero i àubbi effetti dei concordati. D'Ormea m~ndato a Roma per trattare con la curia le questioni più urgenti vince con le astuzie del commediante, più che con le Tisorse della dottrina. « Davasi a divedere delle religiose pratiche osservantissimo; e solendo il Papa di buon mattino dir messa in una Chiesa poco fre- •quentata, ginocchione ei gli si parava d·i- "nanzi tutto assorto nella preghiera, un grosso rosario snocciolando ... )>. • Si seppe sfruttare sino al fondo lo spirito 0 di conciliazione del cardinal Lambertini diventato papa alla morte di Benedetto XIII. Solo Bogioo non ebbe bisogno cli siffatte scaltrezze per la sua poHtica volta all'abolizione dc1le 1m.anomortc. Ma la situaziQne era considerevolmente mig]iorat..a, nè bisogna dimenticare che lo spirito di maggior conciliazione portato nei dissidi da re Carlo Eman11cle JTJ, servì piutLOsto a consolidare i risultati, rironfennando i concordati contro le nuove velleità controffensive della Cnria, che a continuare il processo, tranne che neHa faccenda della Nunziatura. La politica ilei padre fu creativa e battagliera, il figlio ne seguì in tutti i campi 111ediocremente le ortne. Che cosa rappresentano i concord.ati? Come se ne valse Jo Stato piemontese? Le materie regolate riguardavano piuttosto la sovranità civile che le necessità ecc1esiastiche. Con cinque concordati (1726, 1727, 1742, 1791) si finì per riconoscere al Re di Sardegna il diritto di proporre alla Santa Sede i candidati ai benefizi concistoriali (vescovj e abati). Questo dirillo di intenzione e consentimento era un caratteristico provvedimento di natura giurisdizionalistico, che ci ricorda le proclamazioni intransigenti del Radicati 1e ci mostra il re deciso ad avere sorveglianza sugli affari ecclesiastici. Nessuna meraviglia, se il concetto di una Chiesa Nazionale era in Europa diffuso, per la specifica influenza degli ambienti cli Riforma. Coi concordati del 1727 e 1741 e con un altro del 1749 il Re affermava invece un suo preciso diritto di sovrnnità contro la giurisdizione che vescovi esteri dovessero delegare in dette frazioni un vicario che li rappresenEccoci giunti non soltanto per la cronologia alle porte della Rivoluzione Francese. Il Re di Sardegna mira a farsi riconoscere il diritto delJ'Exequatur sui provvedimenti ecclesiastici; limita la conoossione del braccio secolare. Nè importa che la Chiesa dia a queste riforme il carattere di sue concessioni sovrane. Ciò che si. concede su questo cammino non si riprende. Il futuro è tuttavia salvo. Lo spirito della lotta contro il feudalismo può far agire tutte le sue risorse. Se a q1.1esto punto i sovrani si fermano perchè intravedono nella Chiesa una difesa cobtro il pericolo di novità, l'iniziativa passa ai popoli, le riforme sboccano nelle rivoluzioni. Resta a vedere come i] Piemonte fosse preparato a questo passo. p. g. La politica estera della Destra ( 1871-1876) Gaetano Salveniini, prinia di esser arrestato stava lavorando ad una vasta opera di storia della politica estera italiana do po zl '70. Offriamo ai nostri lettori una parte dei suoi studi sulla politica della Destra. Dopo la guerra franco-germanica del 1870, ~'Italia era in Europa come un viaggiato.re inaspettato, che entra in treno e cerca un posto anche per sè, e così disturba tutti gli altri viaggia;tori che si erano già sistemati. Per dodici secoli l'Italia era stata divisa ia piccoli Stati locali, spesso in guerra gli uni con gli altri. Per effetti di questa disnnione', che sembrava innata nel popolo italiano, tutti i vicini avevano per secoli considerato l'Italia come un paese assai comodo ad utilizza.re negli scambi diplomatici, in cui ognuno poteva entrare quando gli piaceva, prendersi quel che desiderava, ed impiegarlo come pedina nel proprio gioco. L'unificazione nazionale dell'Italia era un fatt0 nuovo che si era determinato inaspettatamente neÌ corso di pochi anni, fra il 1859 e il 1870. E i diplomatici delle grandi Potenze tradizionali dovevano fare un grande sforzo di immaginazione per adattarsi alla idea di questa nuova realtà: gli uomini in crenere e i diplomatici in is1)ecie, sono lenti a 0 ~odificare i loro atteggiamenti mentali, e non ama110 guardare in faccia le nuove situazioni, speciahnente quando la situazione antjca era più conveniente della nuova. A parte quest'attitudine di sdegnoso compatimento, che era tradizionale nei vicini, sta il fatto che nel 1871 l'Italia era realmente uno Stato debole, che doveva affrontare difficoltà formidabili. Oggi, non contando la Russia, che attraversa una fase eccezionale della sua storia, le popolazioni dei p1·incipali Stati dell'Europa si dispongono nel seguente ordine nurnerico: Germania Gran Bretagna Italia Francia Nel 1871 l'ordine era Germania Francia Austria-Ungheria Gran Bretagna Italia 60 47 40 39 milioni )) )) )) assai diverso: 41 milioni 36 » 35 ,, 32 ,, 26 » L'Italia, quindi nel 1871, poteva difficil1nente essere considerata come una grande Potenza. Piuttosto teneva un posto intermedio fra le grandi e le piccole Potenze: era la più piccola fra le grandi, e la più grande fra le piccole. Inoltre, essa non possedeva nè ferro, nè carbone: cioè, mancava delle più importanti materie prime su cui si basava la potenza dei grandi Stati dopo la rivoluzione industriale del secolo XIX. Le sue finanze, la sua struttura amministrativa, le sue forze di terra e di mare avevano ancora bisogno di essere consolidate, se non addirittura create. Sopratutto, il Governo italiano era aggravato continuamente dalla questione del potere temporale del Papa. Oggi non esiste più nnlla della geperazione che vide mezzo secolo fa la fine cli tutti gli antichi piccoli Stati locali italiani, e fra questi, dello Stato del Papa. Maestri elementari, 1nedici condotti, giornali, organizzazioni economiche, organizzazioni dei diversi partiti politici, tutto ciò ha sottratto a poco a poco la maggioranza della popolazione alla influenza del clero. Lo spirito dello stesso clero si è interamente trasformato nell'ambiente politico, sociale e spirituale della nuova Italia. E ultimamente, la guerra mon- \iiale ha smembrato l'Austria-Ungheria, cioè la sola grande Potenza da cui il Vaticano avrebbe potuto, caso maj, aspettare aiuto per la restaurazione del dominio temporale. Perciò la questione romana si e esinanita orainai fino a tali proporzioni che non rappresenta più nessun pericolo per l'Italia, nè nella politica interna, nè nelle sue r,dazioni interna2iionali. Ma cinquant'anni or sono, era questo il problema centrale della vita politica italiana. Il Papa Pio IX rivendicava, in ogni occasione, la città di Roma, e tutti gli altri territori che per undjci secoli avevano formato lo Stato pontificio dell'Italia centrale. Il clero italiano dirigeva la vecchia aristocrazia fedele alla Chiesa, e dominava quasi ovunque le masse dei contadmi, per i quali la parrocchia era la sola forma di organizzazione sociale e di vita spirituale. E così quelle classi sociali, che in tutti gli altri paesi formavano la base dei partiti conservatori, E"i trovavano spezzate in Ìtalia jn du·e sezioni: il gruppo, che teneva il governo, raccolto intorno alla dinastia di Savoia e il gruppo legittimista, che sosteneva la causa del Papa, dichiarava illegittima la unità· politica d'Italia, si asteneva dal votare nelle elezioni politiche, era come rm esercito accampato in paese ne1nico, pronto sempre a muovere al- ] 'attacco. Fuori d'Italia, le grandi masse cattoliche facevano eco alle proteste del Papa e dei cattolici italiani. L'unità politica d'Italia, sorta com'era sulle rovrine del potere temporale •della Chiesa, era descritU! ovunque dai propagandisti cattolici come una creazione del demonio, la cui distruzione fosse il primo dovere di ogni credente. La osLilità più violenta e più pericolosa contro lo SLato nazionale italiano partiva dai gruppi monarchici e clericali francesi. Questi gruppi ritenevano che fosse massimo obbligo della Francia restaurare l'aJttico Stato della Chiesa. I preti raccoglievano ovunque firme per protestare contro la oppressione del Papa e in alcuni dipartimenti della Francia vendev.ano come reliquie la paglia su cui dicevano che era costretto a dormire il prigioniero del Vaticano. Nelle elezioni del 1871 10.3 i gruppi monarchici e clericali avevano conquistata la maggioranza nell'Assemblea nazionale: non riescivano a ristabilire la monarchia; in compenso si afogavano contro l'Juilia. I deputati della maggioranza domandavano che il Governo della Repubblica intervenisse a sostegno del Pupa. E solamente l'autorità di Thiers, il capo del Potere Eseeutivo, riesciva a frenare le passioni esaltate e ad evitare una rottura immediata coll'IuiJia. Ma che cosa sarebbe avvenuto da un momento aU'altro, se la maggioranza eliminava Thiers dal Governo e dava libera carriera ai suoi sentjmenti an6-it.aHani? Per tutte queste ragion:i, molti in Italia' e fuori d'Italia avevano poca o nesruna fede aUa solidità del nuovo Stato nazjonale: ;] quale sembrava continuamente nel punto di sfasciarsi sotto i] peso deDe difficoltà interne ed esterne. Ma l'Italia aveva un grande vantaggio fra le grandi Potenze europee: il vantaggio della sua posizione geografica. La pianura del Po, in.fatti, è a conuitto con i paesi dell'Europa centrde; e per effetto di questa posizione intermedia fra la regione del Danubio e la Francia meridionale, ha sempre avuto una grande importanza militare, e perciò anche politica, anche prima della unificazione iuiliana. Nelle guerre fra i Re di Francia e la Casa d• Austria, quella fra le due Potenr,e cbe riesc;va a controllare militarmente la pianura del Po non aveva più hisogno cli preoccuparsi della frontiera itaHana, e poteva concentrare tutte le forze nel territorio germanico. Questo spiega l'imporU!nza, che fino dal XVI secolo lo Stato della CLlsa di Savoia ba avuto nella politica eu.rope..t: importanza così sproporzionata alJa piccolezza d.el territorio e alla forza militare assolut:1. I Sa\'Oia erano sor,rannominati «i guardaportoni delle AlpL,. Quando si alleavano col Re di Francia, permettevano a una parte dell'esercito francese di sceildere in Italia senza difficoltà, e :n collegamento con le truppe francesi minacciavano il dominio austriaco in Lombardia: e così P Austria era costretta a mantenere una parte notevole delle sue truppe in Italia, mentre la Francia poteva attaccare in Germania col massimo delle p1op rie forze. Invece, quando la Casa di Savoia si alleava con l'Austria, allora la Francia si trovava minacciaui in Provenza dalla Savoia, ed era costretta a dividere le sue forze fra il Reno e le Alpi; mentre l'Austria lasciava sguarniui la Lombardia e concentrava tutte le ,me forze militari sul teatro germani~o. Noi possiamo dire, in linguaggio economico, che la Casa cli Savoia occupava una « posizione-chiave », aveva un « monopolio di posizione )) nella politica europea; e approfittava di questa posizione per inserirsi nel gioco dei potenti vicini. Si alleava con la Fra'ncia per conquistare, con l'Austria per conservare. E così si mangiava il carciofo italiano a foglia a foglia, come diceva il duca Emanuele Filiberto nella seconda metà del '500. Quando con la unificazione nazionale iraliana il carciofo fu quasi finito di mangi.are, la vecchia << posizione-chi ave » non fu in alcun modo svalutata. Anzi la unificazione politica accrebbe l'importanza della pianura del Po: perchè da ora in poi il nuovo Stato nazionale poteva concentrare uell'Italia settentrionale, verso l'Europa centrale, le truppe reclutate in tutta la penisola; mentre prima il piccolo $taterello piemontese poteva manevrare solamente con un piccolo esercito. La penisola italiana con l'isola di Sicilia esercita nel mare Mediterraneo una funzione militare e politica analoga a quella che la parte continentale dell'Italia esercita verso l'Europa ce•Itrale. In tempo di guerra, la Pv1enza che riesce a controllare il Mediterranf'"o, può intercettare i rifornimenti a tutte le Potenze nemiche. Ora l'Italia divide il Medit<-rraneo proprio nel mezzo. Concedendo agii amici e neuando ai nemici l'uso delle sue basi ;avali e il sussidio della propria flotta, il Governo itali.ano rappresenta un fattore importante nell'equilibrio delle forze marittime mediterranee. L'importanza della penisc.la italiana pd controllo del MediterraneQ fu notevolmente accresciuui per il taglio dell'istmo di Suez fra il 1859 e il 1869. Per t>ffetto cli quest'opera, il M-editerraneo diventò ancora una volta ciò che era stato nel periodo classico e nel medioevo: la grande via delle "enti• il passaggio obbligato per il commerci~ n1a: rittimo fra l'Europa e l'Oceano Indiano e l'Estremo Oriente. Per l'Irnpero brùannico il Mediterraneo diventò la via più breve per le Indie, l'artei-ia jugulare Òt ll'intero sistema circolatorio. E l'Italia si stende prnprio a mezzo di quest'art,eria jugulare Ora, precisamente in quegli stessi anni, in cui fu ragliato l'Istmo di Suez, l'Italia si costituiva in Stato unitario: cioè il Governo della nuova Italia poteva da ora in poi ar-' ~are le sue basi navali con maggiore efficienza che non fosse stf,to possibile agli .antichi staterelli locali. E in conseguenza, le alt.re Potenze mediterranee erano obbli"ate da ora in poi a prendere in consideraz~ne l'Italia in tutti i loro calcoli militari e in t~:te le loro iniziative diplomatiche, assai· p1u che non dovessero prima che ;1 Canale di

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