RE NUDO - Anno XI - n. 90 - settembre 1980
TERRY RILEY: Shrl Camel. La storia di questo album, ul– timo e miglior lavoro di Riley, prende le mosse dall'ormai lon– tano 1975, quando appunto questo progetto gli fu commis– sionato da una radio tedesca che, nel '76, ne trasmise una anteprima. Il preziosissimo pro– dotto finale è il risultato di due anni di preparazione e viene definito dall'autore stesso co– me "il mio lavoro più concen– trato e uno dei più ispirati mo– menti che io abbia mai provato in studio". Per un quadro più completo ogni cosa deve essere ricon– dotta ancora più addietro nel tempo ... siamo nel 1970 quando Riley inizia i suoi studi sulla musica raga dell'India del Nord. Studi che, come in genere av– viene nel mondo orientale per l'insegnamento di qualsiasi at– tività considerata artistica, fu– rono subito intimamente com– penetrati ad una ricerca inte– riore di tipo mistico. Scopo di– chiarato di tale ricerca, l'aper– tura di una nuova ricettività alle · divine forze musieali che ope– rano dentro e oltre di noi e questo obbiettivo, stando al ri– sultato, sembra qui completa– mente realizzato. Shri Carnei è l'espressione naturale di questi lunghi anni di studio sotto la guida del suo maestro spirituale e musicale Pandit Pran Nath, la persona che maggiormente ha contri– buito al colore tipicamente orientale di questo lavoro. Non trascurabile, d'altra parte, il contributo tecnologico occi– dentale alla realizzazione del disco. Riley infatti si serve di un elaborato sistema di ritardo di– gitale e di un organo apposita– mente modificato da un tulku tibetano (incarnazione di un la– ma o di un santo, secondo le credenze popolari tibetane an– che di un essere non umano: dio, demone etc.), su modula– zioni e scale pressoché intro– vabili nella musica occidentale, il tutto mixato su un registratore a 16 piste (in "Desert of ice" sono usate tutte). Nonostante il raffinato mezzo tecnologico, è importante il fatto che il mo– mento creativo sia spontaneo e, a parte i ritardi, non ci siano ul– teriori manipolazioni del suono. Gli schemi di melodia da orga– no e i cicli di ritorno, sono qui ancora più complessi e artico– lati che nei suoi precedenti la– vori. Questa musica parte dalla fi– ne del dolore, da uno stato di innocenza primordiale. Trasce– sa la dimensione temporale orizzontale di passato/ presen– te/futuro, acquista quella verti– cale del flusso in continuo pro– cesso di metamorfosi. Diviene celestiale ed emana un feeling realmente sovrumano, che per– sino l'autore sembra non co– gliere e di cui non ha merito: "Molte di queste cose - dice - hanno meravigliato anche me stesso e posso solo accet– tarle come dei doni", il musici– sta diventa un veicolo e la stes– sa musica sembra esorcizzarsi in se ste!lsa. L'effetto ipnotico si alterna e si intreccia a quello magico e il suono emana vibrazioni che ri– ducono a quella dimensione che Theillard De Chardin ha chiamato Noosfera, una co– sciente intelligenza cosmica che è essenza d'ogni cosa, omnicomprensiva e vacua al tempo stesso. E' inoltre definibile come ca– polavoro psichedelico, essen– zialmente in due sensi: nella semantica originale del termi– ne, come "rivelatore della mente" (non saprei consigliare una musica d'ambiente miglio– re per la pratica di alcune dsci– pline come possono essere lo yoga o qualsivoglia tipo di me– ditazione); e come riproduttore di molte sensazioni ricorrenti nell'esperienza psichedelica, in particolare quelle impressioni di percezione interiore dei pro– cessi di sinapsi e degli impulsi elettrochimici del nostro corpo, ciò che Tim Leary chiamava "flusso interno dei processi ar– chetipi". Ma al di là di ogni specula– zione, questo suono può sol– tanto essere inserito in una di– mensione di alta sacralità, libe– rata dal culto e da ogni sovra– struttura, una specie di flauto magico che, invece di trascina– re allo esterno, avvicina a quei "paesaggi" interiori inesplica– bili che mistici, visionari, poeti, teste acide di ogni tempo hanno spesso, partendo dalle loro esperienze, tentato di descrive– re. Intendiamoci, non che cin– que miniuti di ascolto scara– ventino automaticamente l'a– scoltatore nel pieno di un trip da 1000 mg. (ogni volta l'ascol– to risulterebbe, se non altro, un pò faticoso!); ma chiunque ab– bia fatto esperienza di uno qualsiasi di questi "stati di alte– razione della coscienza", non avrebbe, credo, _alcun dubbio, nel ricondurre questa musica a tante di quelle sensazioni ine– sprimibili. Musica definibile dunque in moltissimi modi: psichedelica, estatica, trascendentale, alluci– natoria ... che, per aspetti diver– si, comprende tutte queste de– finizioni e le sintetizza in un in– sieme omogeneo originando forse, come qualcuno ha già detto, una musica della nuova coscienza. BOBDYLAN Saved CBS Michele Slgurani E cosi il signor Zimmermann è riuscito, per il momento, a salvarsi l'anima. E ha cercato, com'era logico, una salvezza anche per la sua musica: attra– verso un accostamento, inedito nella sua radicalità, al gospel ed allo spiritual. C'era stato, è ve– ro, il precedente di New Mor– ning, sempre in tema di religio– ne, con alcuni tentativi in quel senso. Ma qui le modalità, i toni della musica religiosa sono ab– bracciati senza ·esitazioni, to– talmente; a cominciare proprio dall'iniziale Saved, spiritual pu– rissimo con tutti i crismi, enne– sima testimonianza delle capa– cità assimilative dylaniane. Bisogna dire che il Dylan neomistico suona davvero più convinto (e convincente) di quello stanco e rassegnato di Street-Legal, per non parlare poi dell'insopportabile live At Budokan. E, anche rispetto a Slow Train Coming, Saved mo– stra maggiore padronanza del nuovo stile e delle nuove tema– tiche, anche in assenza dell'apporto strumentale dei vari Dire Straits. Anche se le orecchie dei materialisti incalliti troveranno sicuramente fasti– dioso il piglio profetico e predi– catorio di questo Dylan ormai sordo a qualsiasi dubbio. Resta il fatto che Saved è un disco con del ritmo, con del feeling (e lo scetticismo riguar– do ai bianchi-che-fanno-musi– ca-nera è fuori luogo: Dylan ha sempre rubato dove poteva). E in mezzo ai trionfali spiritual ci sono regalati anche due pezzi, più distesi, con il mood del Dy– lan che fu: Covenant Woman, e soprattutto What Can I Do For You, dove per la prima volta in quattro anni riscopre la buona vecchia armonica. Paolo Bertrando THECURE Seventeen Seconds Fiction Già con Three lmaginary Boys i Cure si erano rivelati maestri di un rock fatto di mez– ze tinte, salutare reazione alle velleità eroiche di molta new wave britannica. Seventeen Seconds prosegue la stessa strada, con intimismo anche più accentuato: sarà forse la defi– nitiva prevalenza del chitarrista Robert Smith a segnare di sé tutte le atmosfere; fatto sta che il gioco è compiutamente rive– lato fin dall'iniziale A Reflection, un semplice, asciutto duo tra la chitarra di Smith e il piano del nuovo arrivato Matthieu Har– tley. E gli impasti sonori man– tengono la stessa tenuità lungo tutte e due le facciate, dal can– tato quasi sottovoce di Secrets fino alla meditativa delicatezza di A Forest. Tutto l'armamentario solito di orpelli e sovraincisioni è volu– tamente escluso dal bagaglio sonoro di questi Cure. Non solo pochi strumenti (nonostante l'introduzione delle tastiere), ma anche usati con scarna di– screzione. Il beat di Tolhurst è ridotto ai minimi termini, la chi– tarra si accontenta di pochi ac– cordi senza simulare maestria, e persino piano ed organo si li– mitano a pochi tocchi di colore. tecnica, sanno creare compo– sizioni perfettamente aderenti alle loro capacità. E' la sconfit– ta, almeno temporanea, della poetica dell'eccesso. Paolo Bertrando FRANCOIS BREANT Voyeur extra-lucide EGG Quando la Francia ci propo– ne musica progressiva, trovia– mo sempre focacce saporite per i nostri denti esigenti. "A morte i compromessi e le sco– piazzature di divi anglo-ameri– cani, viva il fuoco creativo!" questo potrebbe essere il motto dei cugini d'Oltralpe che ha da– to vita ai MAGMA, ART ZOYD, ETRON FOU. E non dimenti– chiamo che i Gong dei tempi aurei si svilupparono nell'orbita francese. L'anno scorso l'etichetta pa– rigina EGG ci propose interes- santi aliti bollenti e ora riecco il più fulgido pargolo di quella covata: il tastierista Francois Brèant. Il primo album Sons Optiques ci colpi per la fanta– siosa coloritura elettronica e l'estrema funzionalità struttura– le; le composizioni accomuna– vano vivaci sprazzi cromatici e maestose espansioni armoni– che. La seconda prova mantie– ne tutti questi pregi, aggiun– gendo compattezza e fluidità. Nel precedente LP, Brèant si sobbarcava la maggior parte del lavoro, giocando di so– vraincisione; qui l'espressione è collettiva, in presa diretta, con spazio per spunti dei compri– mari. Tre tastieristi, due chitar– risti, una sezione ritmica e un violinista (l'egregio Didier E' la sconfitta dell'epica co– me dell'effettismo. I Cure non hanno bisogno di emanare proclami, nè in negativo nè in positivo. Senza essere mostri di ' RE NUD0/21 Lockwood) ci regalano un suo– no ricco e dinamico, senza mai cadere nella trappola di sterili preziosismi. In chiusura, la brechtiana We ate the zoo (con le voci dei MAGMA Stella Van– der e Klaus Blasquitz) porge la ciliegina ironica sulla torta so– stanziosa e adatta a tutti i palati, dai più sognanti ai più radic~li. Unico rammarico, è quello di non aver ancora visto Brèant sui palcoscenici italiani: pare che dal vivo faccia scintille. Massimo Bracco SIOUXSIE & THE BANSHEES Kaleldoscope Polydor Una Siouxsie tutta su toni medi è la sorpresa di questo nuovo album, serrato seguito di Join Hands. Ma non è la sola, anche l'organico dei Banshees è completamente rivoluziona– to: è storia ormai vecchia che chitarra e batteria avevano ab– bandonato Siouxsie e Steve Severin all'inizio del tour con i Cure, costringendo Robert Smith ad un estenuante doppio lavoro chitarristico. Oggi la crisi pare superata, grazie all'inserimento di Budgie (già batterista delle Slits) e delle chitarre, alternate, di Steve Jo– nes, e McGeoch. Lo stacco è sensibile: è Budgie, soprattutto, batterista di scuola raffinata, ad intro– durre ritmi composti e spezzati là dove un tempo imperavano le percussioni squadrate di prima. Ed alla nuova concezione ritmica corrisponde un globale cambio d'impostazione. Dopo l'angosciato, violento The Scream ed il trionfale Join Hands, Kaleidoscope si pone come opera di ripensamento e, in un certo senso, di pausa. Le atmosfere cupe si sfumano, ed affiora un'inedita tendenza al perfezionismo, un amore del dettaglio evidente anche nella produzione curatissima, quasi al limite dell'eccesso. La stes– sa Siouxsie mantiene i potenti glissandi vocali, marchio in– confondibile del suo stile, ma inseriti in un tessuto di tensio– ne minore, con spazi addirittu– ra calligrafici. In Lunar Game/ Siouxsie affronta persino sin– tetizzatore e percussioni elet– troniche, con effetti à la John Foxx. Con tutto questo, Kaleido– scope non ha nulla da invidiare agli altri lavori dei Banshees. L'equilibrio che dimostra non è una resa, è semplicemente il superamento, necessario, del– le originarie istanze d'imme– diatezza. Dove porteranno i ri– pensamenti, è storia ancora da scrivere. Paolo Bertrando
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