RE NUDO - Anno X - n. 82 - dicembre 1979
Sto partendo. Sto tornando iri Ita– lia. Sono sul treno che da ··Poona mi porta a Bombay. Il mio ultimo giorno in India, l'ultimo giorno a Poona. Più forte di tutti gli altri giorni, che pure mi hanno sconvolto. Guardo dal finestrino la campagna indiana che amo, i villaggi di ca– panne, la povera gente, le donne che sorridono e ridono in mezzo ad una miseria che da noi sarebbe profonda disperazione. BlÌagwan è indiano. Non potrebbe essere che indiano, ormai da molte vite. Gli indiani hanno nella loro cultu– ra, in senso propriamente esisten– ziale, il sentimento del « sourren– der ». Ora l'India sta cambiando, sta finendo; il fascino dell'Occi– dente con i suoi lussi e le sue inu– tilità, ha cambiato la gente. Nuovi miti stanno nascendo. Le grandi città, come Bombay e Calcutta, li hanno già realizzati. La povera gente, l'India che amo di più, li guarda ancora da lontano. Ti chie– de il bakscish, ma sorridendo. Non è né angosciata né disperata. La vita basta a se stessa. SOURREN– DER, È infinitamente dolorosa per me questa parola. Io ho amato il pote– re, combattendolo. Ho voluto conquistarlo, giocando false schermaglie, che chiamavo « lotta ». L'ho desiderato, disprez– zando e invidiando quello degli altri. SOURR.ENDER è dolcezza e for– za. È giocare con la vita momento per momento; giocare la tua rabbia e la tua gioia, con lo stesso amore. SOURRENDER è il potere più grande. È il potere dell'amore. È energia canalizzata nell'amore. Sto scrivendo queste cose, ma non so se sia ancora una volta presun– zione quella che mi fa pensare ad alta voce con questo foglio a qua– dretti. Non ho mai letto nulla di ciò che Bhagwan ha scritto del « Sourrender »; non l'ho mai sen– tito dalla sua voce. Il .Sourrender che io ho vissuto qui, che sto vi– vendo adesso, in questo momento in cui sento il mio iùrpo totalmen– te vuoto e staccato e mi sento la penna che scrive, è questo. Mi fa paura. Essere dentro le cose, arrendersi alle cose significa non a– vere più potere, non violentare, « non volere che sia ». Accettare e basta. Il mio potere, la mia volontà di potere, l'esercizio del mio potere mi ha provocato tanti guai, ha fat– to male a tanta gente, ha insultato e schiaffeggiato tanti, mi ha fatto morire dentro, ma mi ha dato adu– lazione, ammirazione e devozione. Ho paura di averlo perso, di stare perdendolo. Tanto quanto desidero ucciderlo tanto mi angoscia sen-. tirmi indifesa e senza armi. Le armi a doppio taglio. Per questo me ne vado da Poona, me ne torno in Itali a senza mala e in tenuta sportiva, ma con una fo– to di Bhagwan, la più bella forse, quella che preferisco sicuramente. È certo un maestro, il maestro più pazzo che ci possa essere, capa– ce di giocare diecimila giochi di– versi. I « sanyasin » dicono per sconvolgerti la mente; io dico an– che perché a lui piace, perché ha raggiunto la consapevolezza di tut– te le parti che stanno dentro ognu– no di noi. Un vero maestro insegna con l'esempio e _poi con la parola. È la primà volta che accetto di '« chiamare » qualcuno maestro. Non l'ho ancora accettato come maestro, forse; « dico » che lui è un maestro. Ma IO sono la mia maestra. L'ho scritto anche a Lui e Lui mi ha risposto: « Follow yours fillings ». Segui la tua strada, ma anche « cazzi tuoi ». E io la sto facendo. Pezzo per pezzo. Forse la mia strada ritornerà qui. Mi sento Siddharta in questa storia; Sid-
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