RE NUDO - Anno X - n. 76 - maggio 1979
il momento della trasgressione in cui si approda ad un'altro mon– do, all'alterità. E alterità signifi– ca: vivere, nello stato della veglia, la dimensione del sogno. Ebrezza, misticismo, follia, estasi, in par– te arte, permettono di accedere a questa dimensione. Ma l 'inter.ìi – zione copre, almeno nella società patriarcale, ogni tendenza a uscir– si, ogni riaffermazione del cosidet– to « inconscio » nella sfera del « conscio », cioè della produttivi– tà, delle attività finalizzate. E il tabù accompagna ogni rivelazione, ogni accesso al mistero, possibile a patto di rinunciare, spesso dolo– rosamente, ai limiti dell'io, che è quanto dire l' ek - tasis degli anti– chi, « l'uscirsi ». Il tabù è realtà solo in quanto venga superato; il tabù è un sentimento (non un com– plesso di proibizioni, come sostie– ne invece Lévi - Strauss), il sen– timento del rischio, dell'avventu– ra, la vertigine che coglie chi ca– la nell'Ade o ascende ai cieli. Il tabù (che è quanto dire: toccar con mano la frontiera perigliosa) è di ogni gruppo umano, perché ogni gruppo umano ha coscienza della morte; la proibizione-norma sostituisce il tabù nel e società, cioè nei gruppi sottoposti al pro– cesso di gerarchizzazione. Ma nep– pure la proibizione-norma (religio– sa o legale che sia) può cancellare il proprio fondamento « sacro ». E per « sacro » intendo ciò che si ri– vela « aldilà »: l'informe, simbo– leggiato e realizzato insieme dal sangue, dall'erotismo (fare di due corpi uno, atto dunque anche di infrazione e violenza), dallo scon– tro fisico (lotta, duello, guerra), da tutto ciò che sfonda le barriere e goiche. Ma la rivelazione è distrut– tiva - è consumazione: vedo l'al– tra faccia dell'esistere, vedo la mia perenne morte.· Festa è consumazione, dissipazio– ne, spreco contrapposto dell'accu– mulo. Ma la festa come contrap– posizione all'accumulazione è, a sua volta, momento indissolubile dalla produzione, come la defeca– zione lo è dall'alimentazione. Il cristianesimo un tempo, e oggi il marxismo e in generale le ideo– logie del progresso (e dunque le scienze umane), sostengono che a fondare l'uomo è il lavoro, men– tre in effetti nell'uomo nessun ele– mento è separabile dal resto. Festa e lavoro sono due momenti indi– visibili, altrettanto fondativi. Ri– peto: festa-consumazione e lavoro– accumulo sono una perennità. Il lavoro presuppone la festa, e vice– versa. In effetti, il potere non è che il monopolio della festa, della trasgressione, della consumazione. Il potere è « gioco », è ludus: i potenti sono perennemente impe– gnati in una partita le cui pedi– ne sono eserciti, partiti, gruppi di RE NUD0/29 pressione, sindacati, organizzazio– ni, aziende, banche, in una paro– la sudditi. A questi si lascia la pro– duttività, la razionalità e il lavo– ro organizzatò. Certo, il potere de– ve programmare per sussistere e dunque ingannare i sudditi, ma come lo fa un generale che pro– gramma razionalmente in vista di quel grande acme irrazionale che è la battaglia. Riappropriarsi della festa, signifi– ca dunque rifiutare il potere, e pertanto riconoscerlo in sé quan– to lo si è interiorizzato: Religio– ne e Discorso hanno provveduto, da secoli, a radicarle saldamente in ognuno di noi trasformato in homo rierarchicus. Significa dun– que rifiutare la propria « mascoli– nità» (uomo o donna che sia), si– gnifica recuperare la dimensione polimorfa-perversa che le scienze umane, e la psicoanalisi in parti– colare, concedono con molte limi– tazioni e controlli solo al bambi– no. Significa rifiutare la monodi– mensionalità della società scienti– stica e razionalizzante. Significa disobbedire al proprio io (costru– zione gerarchica, patriarcale, frut– to di una secolare elaborazione), rifiutando la triade gerarchica Su– perio-Io-Es; e significa disobbedi– re alle istituzioni del potere e del con tropotere. Cosa però estremamente difficile in una società in cui la teologia e il suo erede, il pensiero illumi– nistico, hanno largamente desa– cralizzato il mondo, hanno cioè fatto credere che uscire dai limi– ti del « giorno», della produttivi– tà, della lucidità, per sprofonda– re nella « notte », sia peccamino– so e « morboso ». Ma la desacra- 1izzazione non ha certo eliminato, perché non può, la nostalgia della « ombra », del buio, delle dolci po– tenze ctonie prepatriarcali: della Sapienza contrapposta al Sapere, dell'Eccesso contrapposto alla ra– zionalità (e alla povertà) del Di– scorso. Ed è questa nostalgia la potente molla della liberazione e per l'uo– mo si dà un'unica libertà: quel– la di poter uscir-si.
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