Quaderni di Roma - anno II - n. 5-6 - set.-dic. 1948

CHATEAUBRIAND 401 della propria ansia formale che lo ripaga per sempre di un universo distrutto, dove ormai è il nulla. Egli non poteva credere nell'arte come in un demone isolato e imbattibile, cui tutto deve essere sacrificato, anche le travi della propria casa. Coltivava l'ideale di un uomo completo, la cui vita somigliasse all'opera (come disse egli stesso) e in cui la fantasia, anziché sedersi dispoticamente come arbitra assoluta di un regno confinante con l'irreale e l'assurdo, lievitasse dall'esperienza, dalle cose viste, nei viaggi meravigliosi o nella battaglia politica. E la sua solitudine fu quella non di un essere bloccato dalle cose, o di chi, rifiutando il mondo, aspira ad una sovrumana purezza, come un Senancour (per citare uno scrittore del suo « groupe littéraire »), purezza alimentata al bianco dei ghiacciai, nei paesaggi alpestri; è la solitudine invece sofferente di un uomo, che nella stessa azione crea di continuo il vuoto e la noia che lo fermano in un'imponenza sdegnosa. Ma quest'ultimo rilievo può forse ancora eccitare i commentatori, che in ogni tempo, badando soprattutto agli aspetti più superficiali, hanno condito di varie ironie la vita e l'opera di Chateaubriand. Com'è mai possibile - scriveva pur uno degli ingegni critici più fini dell' ultimo Ottocento - che un uomo di così forte temperamento, così « bon garçon», d'una gaiezza così facile con i suoi amici, che ha tanto scritto e che fu quasi un indemoniato nella sua mania di scrivere, la cui carriera è stata splendida, che ha tanto goduto non soltanto della sua gloria ma dei suoi titoli e dei suoi onori, che ha goduto con tale sovrabbondanza e così ingenuamente d'essere ministro e ambasciatore ecc., com'è possibile che quest'uomo abbia « baillé sa vie », sia stato afflitto dalla noia, molto più che il resto degli uomini? Ora, non è difficile comprendere che, per citare un esempio famoso, Valéry non creda alla totale disperazione metafisica di un Pascal, in quanto Valéry, asceta di una concezione dell'arte come pura operazione intellettuale, pensa che una détresse che scrive così bene non possa essere completa; non abbia cioè salvato dal naufragio qualcosa: libertà dell'intelligenza, sentimento del numero, logica e un certo simbolismo, qualcosa insomma che contraddice a quel che la pagina afferma. Ma le considerazioni che riportavamo non sono altrettanto sottili. Presuppongono almeno un limitatissimo significato di quel termine famoso: noia, oppure non desiderano affatto, accecati dalle splendide o fastidiose apparenze, entrare in un universo morale pieno di ombre. Il « mondo » di Chateaubriand che si espresse in tanta mirabile profusione di mezzi, era realmente un mondo incrinato, con profonde crepe e avvallamenti e disastri. E la noia vi faceva naturalmente i suoi ravaxes. Non certo quella totale come la détresse di Pascal, che impedirebbe all'uomo non dirò di esistere, ma almeno di scrivere, perché non si p~ò dar forma al nulla; ma l'altra che si cela alla radice dell'essere, e scompiglia il ritmo dell'esistenza e suscita evasioni sfrenate, per riprodursi poi tale e quale, una volta che l'esperienza è compiuta. Una insoddisfazione perpetua

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==