Quaderni di Roma - anno II - n. 5-6 - set.-dic. 1948

342 MICHELE PELLEGRINO tano quelli incerti e futuri, e mentre temono di morire dopo morte, frattanto non temono di morire». Così Cecilio, fedele interprete, ne11',0ctavius minuciano (8, 5), della mentalità pagana. « E voi frattanto», continua l'implacabile accusatore, « incerti e ansiosi, vi astenete dagli onesti piaceri: non frequentate gli spettacoli, non intervenite alle feste; i pubblici banchetti, le sacre gare han luogo senza di voi» ( 12, 5). Anche per Celso (ap. Orig., C. Cels., III, 78, 80) i cristiani, sedotti da vane speranze, disprezzavano i beni della vita, nell'attesa di qualcosa di meglio (1). La risposta dell'apologista cristiano attinge volentieri a1 tesori d'una sapienza eh' era divenuta patrimonio comune; con accenti in cui Seneca riconoscerebbe alcun.e delle sue pagine migliori, replica Ottavio: « Quel che si dice di noi, che i più siano poveri, non è a nostra infamia, ma a gloria; l'animo, infatti, come per il lusso si snerva, così si rafforza con la frugalità. Ma, d'altra parte, come può esser povero colui che non ha bisogni, che non brama l'altrui, che è ricco dinanzi a Dio? Più povero è colui che, pur avendo molto, desidera ancora di più .... Se giudicassimo vantaggiose le ricchezze, le chiederemmo a Dio .... Ma noi.... desideriamo piuttosto l'im;1ocenza,chiediamo piuttosto la pazienza, preferiamo essere buoni che prodighi» {36, 3-7). Non dunque sterile rinunzia, ma sforzo d'ascesa a più veri e alti valori. Se il cristiano evade dal mondo burrascoso, dirà Cipriano, è per trovare in Dio la sorgente di più profonda letizia (Ad Don., 6). Anche il dono della vita è giustificato dalla dedizione ai supremi ideali e dall'attesa della vita che non tramonta. Al proconsole, che minaccia di scatenargli contro le belve se non muta opinione, risponde Policarpo: « Chiamale pure: noi non cambieremo mai il meglio col peggio; è bello invece cambiare il male co~ giusto.... ». E quando qu~gli parla del rogo: « Tu mi minacci un fuoco che brucia per un'ora e tosto si spegne, perché non conosci il fuoco del futuro giudizio e dell'eterno supplizio riservato agli empi» (Mart., 11, p. 4, Knopf-Kriiger; cfr. Acta Iustin., 5, 4, p. 17). « Non invano, dichiara Origene, offriamo il nostro corpo alle torture e alle bastonate.... E noi riputiamo cosa grata a Dio l'essere bastonati per la virtù, l'essere torturati per la pietà, e per la santità morire cosa conforme a ragione; ' preziosa infatti agli occhi di Dio è la morte dei suoi santi ' » (Ps., 115, 15); « e diciamo essere buona cosa il non amare la vita» (C. Cels., VIII, 54). Solo un lettore sprovveduto e superficiale potrebbe leggere in questa vigorosa conclusione una prova di fanatismo. La parola di Origene non si comprende nel suo genuino significato se non nel coro delle voci di fratelli che esaltano nella morte del corpo la nascita alla vera vita. (I) Altri passi paralleli sono indicati nella mia edizione dell'Octavius, Tarino, 1947, nota a 815.

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