Quaderni di Roma - anno II - n. 3-4 - mag.-ago. 1948

1'0TE DI CRONACA 301 carducciana, delle am1c1z1eletterarie tra i coetanei Severino Ferraci e Pascoli, l'anziano Murri e il giovane Serra (vedi Per amore d} Bia11cofiore, Firenze, Le Monnier, 1948). E le pagine aderiscono con fascino all'esame del critico d'oggi. Pancrazi rifinisce lo storico del Settecento e del primo Ottocento, quello svago panziniano dove si nasconde sempre una perplessità d'uomo di mondo, abituato a tutte le malizie ma pronto a credere nell'ingenuità. Valgimigli commemora, più emotivamente, lo studente di via Zamboni, il cronista della Bologna fine secolo, l'adolescente rubicondo dell'aula carducciana e degli amori della P11/cel/asenza p11lcellaggio, dei primi sottintesi ironici, ma soprattutto dell'energico magistero morale del Carducci: « Se c'è scrittore lontano dal Carducci è Panzini; e se c'è uomo carducciano che si sente venuto su in quegli anni, da quell'aria e da quella scuola, con quella moralità e costume, con quella fedeltà e devozione ai valori della nostra civiltà e cultura, della nostra tradizione e della nostra storia, e tutto preso anche lui e trepido di quella sacra tristezza che è come un peso d'amore, quest"uomo carducciano è Panzini ». Dove, però, non ci persuade la prima affermazione, e ci va più di rifarci alla conosciuta definizione di Panzini discendente dal ramo della prosa carducciana: il che non deve far respingere la vicinanza umana e morale del Panzini dal maestro del- !'Archiginnasio. E si rileggano qui le pagine su L' evol11zio11edi Giomè Carducci ( del 1894), più importanti per comprendere la formazione del linguaggio panziniano e delle sue prime suggestioni letterarie, anziché come lavoro e risultato critico. Ecco rinascere quel periodare composito del maestro, quello scattare. lucido e dovizioso dell'immagine colorita in mezzo alla fatica dell'indagine storica, quel ricostruire mondi e luoghi poetici attraverso il ricordo e la comparazione letteraria. Una ristampa che a qualcheduno potrà parere addirittura anacronistica, è quella de li Pastore, il Gregge e la Zampogna con una brillante prefazione di Arrigo Cajumi (Torino, De Siiva, I 948). Del suo autore, Enrico Thovez, si va parlando sempre di meno, e l'effetto fragoroso che quel libro produsse al suo apparire, ora è tanto diminuito da interessare soltanto una ristretta cerchia di curiosi del clima letterario del primissimo Novecento. t certo il libro che più dà l'immagine del tormento e deg!i errori del Thovez, stracolmo di passi falsi, di inutili punti di partenza, stremato da una cronaca che (specie nel considerare l'avvicendamento delle stagioni letterarie, da Carducci a Pascoli, da Gnoli a D'Annunzio) diventa biliosa e autobiografica. Il Thovez, per far opera <:arretta, avrebbe dovuto soltanto tracciare un esame di coscienza della generazione del '70 contro la poesia carducciana e l'estetica crociana. Avrebbe dovuto segnare un'acme etica e affettiva entro i propositi e i gusti di coloro che non furono, com'è del Trovez, né Ottocento e né Novecento. Volle specificare, giustificarsi con la risposta al Prezzolini, demolire e sostituire criticamente, e in questo modo troppe erano le inibizioni della sua persona perché potesse concludere positivamente. La questione della lingua venne affrontata con un eccesso di dogmatismo. Giuste erano le sue reazioni al linguaggio poetico carducciano, ma anziché esser visto in funzione di quei problemi di aderenza alla storia e di opposizione al costume rnntemporaneo, fu giudicato come un puro fatto di prosodia. Quasi che le debolezze carducciane provenissero da quella scelta e adesione al metro barbaro, e non fosse invece la metrica carducciana il prodotto di una visione della vita e dell'età. Ma la natura artistica del Thovez, quel suo « amore della poesia», e proprio quel suo essere, come dice il Calcaterra, « una creatura di dolore, come tutti i sentimentali ai quali reca disagio e fastidio di trovar il mondO' dissimile da sé », lo riportavano ad una più consapevole ricerca dei valori della poesia e della

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