ANTONINO PAGLIARO voglia fissate in una dethminata forma di sviluppo. La grammatica è appunto sorta allo scopo di fissare nel tempo e nello spazio una lingua comune: « que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis idemptitas diversis temporibus atque locis » (I, ix, rx). Com'è ovvio, Dante guarda al latino, lingua grammaticale per eccellenza, viva sì ancora nell'uso del suo tempo, ma come lingua « regulata », cioè irrigidita negli schemi convenuti dai « gramatice positores » (I, x, 1). Solo una siffatta convenzione può rendere « perpetuo e non corruttibile » ciò che, per partecipare della mutevolezza umana, è « non stabile e corruti ( tibile » (Convivio, I, v, 7). '· . Il De vulgari eloquentia, oltre a dare una giustificazione dell'uso del volgare, in termini alquanto diversi da quelli usati nel Convivio, dà nel secondo libro una vera e propria poetica della Canzone. È, com'è noto, opera incompiuta e ciò spiega come nel primo libro la trattazione prenda un così ampio sviluppo, da includere, non soltanto il problema dell'origine del linguaggio e della distinzione delle lingue esistenti, ma anche la nozione <li lingua grammaticale e cli lingua viva, quella del rapporto fra le lingue e le varietà dialettali e, infine, la questione della lingua d'arte e propriamente di quella che il poeta ritiene adatta alla Canzone: così ampio ed organico è lo sviluppo della trattazione, che va restringendo sempre più il suo oggetto dall'universalità del linguaggio alla concretezza della lingua come realtà di comunione linguistica, della lingua comune, della lingua d'arte. Il titolo dell'opera mostra come Dante intendesse muoversi nei solco della retorica tradizionale (eloque11tia « ben parlare»), ma la necescità di giustificare il volgare come lingua d'arte lo portò a dare una visione più ampia del fatto «lingua», a soddisfazione della tendenza all'organicità propria del suo pensiero. Il linguaggio nella sua universalità è veduto da Dante come facoltà propria ed esclusiva dell'uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente. La parola è per lui il « segno fonico», come noi l'intendiamo, « rationale signum et sensuale», I, iii, 2; ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perchè gli uomini ve lo attribui- ' scono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum » I, iii, 3. La possibilità del comunicare fra uomini, non mossi, come le bestie, da istinti naturali, ma ciascuno in• possesso di una propria «ratio» e individuai- "'
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