Quaderni di Roma - anno I - n. 6 - novembre 1947

ANTONINO PAG',IARO Afferma giustamente il Nardi: « Nel De vulgari eloquentia, il concetto del variare delle lingue non è più concetto astratto, come presso i trattatisti scolastici, ma diventa concreto, solido, storico; è coscienza dello storico divenire del linguaggio di un popolo. In ciò sta appunto la novità del trattato dantesco,, (o.e., p. 171). Com'è noto, l'impaccio, vorrei dire la tara, che inficia tanta parte della ricerca linguistica antica e medievale e la svuota di un reale valore di conoscenza,è dato dal fatto che le lingue sono considerate nella loro statisticità e mai nello sviluppo, in sincronia, secondo la nota terminologia desaussuriana, e mai in diacronia. La visione statica è stata fruttuosa, quando si è trattato di stabilire la struttura funzionale del sistema ed è da tale visione che derivano, da una parte la grammatica, che si fonda sulla considerazione logica delle forme linguistiche e, dall'altra, la logica antica, che, già wn Eraclito, muove dalla struttura logica della fr.tse. Assolutamente infruttuosa è stata nel campo in cui si richiede considerazione nel tempo dei fatti linguistici, ad esempio nella determinazione delle parentele genetiche fra le varie lingue e i vari dialetti e, soprattutto, nell'etimologia. Nulla o pressochè nulla è rimasto dell'immenso lavorìo etimdogico, che affaticò le menti degli antichi e dei moderni sino ai nostri tempi, fondato non su una nozione del divenire dei segni lessicali e dei valori semantici, ma sull'erronea presunzione di rintracciare negli elementi delle parole arbitrariamente scomposte una verità primordiale: « haec quasi cunabula verborum esse crediderunt, ubi sensus rerum cum sonorum sensu coneordant >> Agostino, Principia dialecticae, 6. Che l'idea del mutare delle lingue sia centrale nella concezi:me dantesca, è provato dal fatto che nel Convivio si fa riferimento al De vulgari eloquentia, proprio nel punto in cui si tratta di render conto della mobilità dell,i lingua quotidiana, nei confronti del latino « perpetuo e non corruttibil >>, I, v, 9-10: « Onde vedemo ne le eittadi d'Italia, se bene volemo aggt1ardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati e variati; onde se 'I picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sl ch'io dico, che se coloro che partiron di questa vita, già sono mille anni, tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana per la lingua da loro discordante. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza». In seguito, questo principio della mutevolezza del linguaggio condurrà Dante persino a rinunziare all'idea, ancora mantenuta nel De vulgari eloquentia, che la lingua del primo uomo fosse l'ebraica e che essa parlassero tutti gli uomini smo alla confusione babelica.

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