Quaderni di Roma - anno I - n. 6 - novembre 1947

ANTONINO PAGLIARO colare di poesia» (p. 28) e, forzando un poco il suo argomentare, conclude che « nel libro De vulgari eloquio, non si tratta di una lingua, nè italiana, nè altra qualunque» (p. 30). · Naturalmente, quanti si sono occupati del De vulgari eloquentia solo in rapporto alla famosa ed annosa « questione » della lingua italiana, se sostenitori della tesi della « toscanità », hanno preso contro esso atteggiamento ostile e negativo, come il Manzoni o più: dal Machiavelli nel Discorso o dialogo della nostra lingua, pieno di risentimenti· e di irrispettose punte contro il poeta, al padre Cesari che nella Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana si difende, negando, come già il Varchi ed altri, l'autenticità del trattato ( « e al tutto, come dice il Varchi, a leggere quell'opera, ci bisogna venire a queste due cose; a dir, che fu uno stordito, uno sciocco e vano scrittore, l'altra che a se medesimo col fatto e con l'oper a contraddisse », 3• ed., Milano, 1829, p. 103). Ma anche chi si è avvicinato al trattato dantesco con intendimento più critico, non è riuscito a sottrarsi alla suggestione di misurarlo sul letto di Procuste della famosa « questione ». Così il D'Ovidio nella nota dissertazione Sul trattato « De vulgari eloquentia », ripubblicata in Versificazione italiana e arte pot:tica medioevale, Milano 1910 <•>, dopo avere liberato Dante dall'accusa radicale mossagli dal Manzoni di non avere affatto tra ttato di lingua, non manca di aggiungere rimbrotti propri per la sua insuff iciente toscanità teorica: « Che se nel libro secondo parla Dante più di stile e d'arte poetica che di lingua, nel libro primo però è evidente che egli vu ol proprio parlar di lingua, e che, suppergiù, ne parla jn modo che poteva co ntentar il Trissino e il Perticari. Sennonchè, io cerco di mostrare come Dante , pur intuendo assai felicemente quanto di letterario vi dovess'esser nel la lingua colta, non riuscisse dall'altro lato a ben misurare quanto ella doves se al dialetto, in particolare al toscano; ingannato com'egli era dalla fal sa luce con che gli si presentavano i fatti letterari del tempo suo, dai pregiudiz i della sua mente, dalle preoccupazioni del suo animo, da una catena quind i di illusioni; inevitabili certo, a quei tempi, il che scusa Dante, ma pu r sempre illusioni, il che deve togliere ogni pericolosa autorità alla par te erronea della sua dottrina » (p. 448). E il Rajna, al quale si deve molto per la cura critica del testo del trattato, non è meno severo: « Questa (se. la Divina Commedia), imponendosi d'un tratto all'ammirazione universale degl'italiani, decise, senza po s- • sibilità di opposizioni efficaci, la questione della lingua. Ed essa ve niva col fatto a risolverla in favore del toscano non solo, ma proprio del fioren - (1) Ristampata nell:i sccond.:tparte del volume Versificazione romanza, Poetica e pouia medie• ,,a/~ Napoli I1932 (Opere di Ft. D'Ovidio IX, 11).

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