Quaderni di Roma - anno I - n. 6 - novembre 1947

., :1 ... 'OVADERNI I'· DI ROMA RIVISTA BIMESTRALE DI CVLTVRA DIRETTA DA GAETANO DE SANCTIS ~.S/8/TCOMPACTA ~l'l'l~ ANNO I - NOVEMBRE 1947 - FASCICOLO 6 SANSONI - EDITORE

Comitalo di Rtdazio11r G. DE SANCTIS, pmidente • R. ARNOU • G. COLONNETTI G ERMINI • A. FANFANI . P. P. TROMPEO Stgrtrario di Rtdo:ion~ P. nREZZI Direzio11t t ReJa:iont CASA EDITRICE SANSONI • VIALE GIULIO CESARE, 21 • ROMA INDICE D. RoPs: Roma e la rivoluzione della Croce . A. PAGLTARO: La dottrina linguistica di Dante . . . . . . • . 485 F. GABRIELI: Un poeta arabo e Giulio Salvadori . . • . . . . 502 Rassegne: La ricostruzione edilizia in Italia (BE~s.. oo Co1.0wco) . . . . . 505 Note di cronaca: Cronaca politica (") . ..

ROMA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE (•l Nei primi anni del V secolo un apologo correva di bocca in bocca in tutto l'Impero romano, da Costantinopoli a Bordeaux, da Alessandria alle rive del Reno: la leggenda dei sette dormienti. Si narrava che, nel colmo d'una delle maggiori persecuzioni, sette cristiani, perseguitati dalla polizia romana, erano andati a finire in una grotta e non sapevano nè come vivere in quel nascondiglio, nè come uscirne senza essere presi ed uccisi. Un angelo del Signore era allora disceso :il loro fianco, li aveva addormentati sfiorandoli con la sua ala e per alcuni secoli i setti fuggiaschi avevano riposato così nella caverna protettrice, sfuggendo ai carnefici. Poi l'angelo era ritornato, li aveva richiamati in vita e i dormienti, levatisi in piedi, erano usciti. Prudentemente, con diffidenza, poichè credevano aver riposato solo poche ore, avevano fatto qualche passo nella luce. O stupore! Il mondo era mutato. Dappertutto sorgevano chiese scintillanti di mosaici e di marmi; si cantavano le lodi di Cristo sulle pubbliche piazze; non si parlava più di persecuzioni! Allora, gridando al miracolo, i sette dormienti' avevano unito le loro voci al coro ormai trionfante dei fedeli e avevano ringraziato il Signore con tutta l'anima_. Lo stupore espresso da questo breve apologo è più che giustificato e la storia lo divide. Per coglierne la portata, basta considerare due visioni che i fatti ci offrono. Un venerdì d'aprile dell'anno 30, su una brulla collina alle porte di Gerusalemme, un· agitatore simile a tanti altri d'Israele, era stato visto da tutti agonizzare nel supplizio più infame, crocifisso tra due ladroni. Nel 380, il dominatore del mondo occidentale, l'ultimo grande imperatore romano, Teodosio, presiedendo a Tessalonica una solenne assemblea, consacrava ufficialmente i suoi stati alla memoria dd suppliziato del Calvario, sosteneva che la parola di quel profeta vinto era la verità e ordinava con sentenza definitiva: « Tutti i miei popoli debbono confessare la fede cristiana». In trecento cinquant'anni dunque, vale a dire in ·un periodo bre- ( 1 ) Questo articolo è un :tbbozzo dei temi principali di un libro di prossima pubblicazione su i< L'Eglise dcs Apòtrcs et dcs M~utyrs )1; tale volume è i·l terzo di una Hùtoire Saintc, che comprende già: "Le Pooplc dc la Biblc )1, e \< Jésuscn son tcmps », Fayard, Paris.

DANIEL ROPS vissimo agli occhi della storia, la dottrina seminata sulle colline palestinesi da un povero falegname, aveva invaso i tre milioni di chilometri quadrati dell'Impero. Il vinto aveva vinto; un pro digioso capovolgimento s'era operato e le conseguenze ne sarebbero state inesauribili. Questa è la grandiosa avventura delle origini del Cristianesimo, di cui i cristiani di oggi non hanno quasi più coscienza. Essi non pensano più che questa Chiesa consolidata, organizzat a, inserita nelle tradizioni 11}illenarie dell'Europa, è stata un tempo una minoranza d'uomini lanciati alla conquista d'un mondo, che ha affrontato e vinto una delle maggiori battaglie della storia. Essi hanno dimenticato che il Cristianesimo dei benpensanti è stato in origine una forza rivoluz ionaria che ha sconvolto da cima a fondo l'immutabile ordine antico. Forza rivoluzionaria: è questa infatti la parola esatta, quella di cui non dobbiamo avere paura. Il Cristianes imo è entrato nella storia come una rivoluzion.e. Certo, a ben comprendere tale asserzion e, sarà necessario liberare la } parola da tutti gli orpelli della violenza , dal frastuono più o meno romantico con cui l'accompagna la fabbrica d 'immagini del « Grand soir ». E sarà certo anche necessario precisare sub ito quale sia stato il significato e quali i mezzi di questa rivoluzione. Se ci atteniamo però all'accezione esatta, etimologica e logica della parola , vediamo che la conclusione si impone: la vittoria del Cristianesimo è stata la più innegabile delle rivoluzioni. In che cosa consiste una rivoluzione, lib erata dai suoi orpelli romanzeschi? Da che cosa riconosciamo il suc cesso d'una rivoluzione? Da due fatti. Alcuni uomini nuovi si collocano alle leve di comando e prendono in mano la responsabilità della società. La concezione del mondo cambia; i grandi problemi eterni sulla vita e su ll'uomo ricevono nuove risposte. Riprendiamo ora le due date di poco fa e ne coglieremo il contrasto nella sua vera portata, nella sua portata rivoluz ionaria. Nell'anno 30, quel pugno di fedeli raccolti da Gesù non è più, al momento della sua morte, che un miserabile gruppo di fuggiaschi, e la sua dottrina è conosciuta al massimo da poche migliaia di contadini di Galilea . Nell'anno 380, i •ristiani sono dappertu tto, dirigono le amministrazioni, costituiscono l'armatura dell'Impe ro e il Vangelo è diventato la legge dello Stato. Un così prodigioso capovolgimento apre alla mente umana un campo di meditazioni tanto più ricco quanto è meno utilizzato. In un tempo come il nostro, così vicino pei suoi princ ipi a quello in cui Roma crollò, in cui la civiltà mutò di basi, c'è mo lto da imparare sui mezzi e le condizioni in cui si realizzò nella stori a ciò che a buon diritto si può chiarIJ.ilre « la Rivoluzione della Croce».

ROMA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE 471 Che cosa occorre perchè una rivoluzione trioqfi? La congiunzione di tre elementi: la riunione di un pr:rsonale rivoluzionario, l'apparizione d'una dottrina rivoluzionaria, l'esistenza storica di una situazione rivoluzionaria. Nessuno di questi elementi preso isolat,:1mentee neppure due di essi potrebbero bastare. Pochi uomini decisi, utilizzando circostanze favorevoli, possono insediarsi ai « posti chiave» d'una società, ma se non hanno una salda dottrina, capace di convalidare le loro conquiste su basi profonde, la vittoria sarà effimera e la rivoluzione rovinerà in breve tempo. Al contrario, una dottrina può avere in sè tutta la verità e pure restare del tutto inefficace se non ha uomini risoluti a farla trionfare e se le circostanze non le permettono di dirigere gli eventi. Per impegnare la sua battaglia, il Cristianesimo ha avuto un personale rivoluzionario di qualità eccezionale; una dottrina che, ben lungi da riforme e accomodamenti, era letteralmente rivoluzionaria, la più rivoluzionaria di quante il mondo ne abbia mai conosciute, e, per di più, ha beneficia50, storicamente, d'una situazione rivelatasi sempre più rivoluzionaria, la quale gli ha permesso di suscitare, sulle rovine d'un mondo, una nuova società, una « nuova razza" come dirà sant' Agostino. Anzitutto un personale,rivoluzio11ario. Che cosa dobbiamo intendere con queste parole? Un rivoluzionario è essenzialmente un uomo che si dedica senza riserve a una causa, che è pronto a sacrificare ad essa tutti i beni della vita, i suoi agi, i suoi interessi e perfino la stessa esistenza. E non basta. Il rivoluzionario è anche un uomo volto tutto all'avvenire e che considera, della società in cui vive, solo gli elementi ritenuti utili a costruire il mondo da lui vagheggiato. Ora, a queste definizioni chi ha mai risposto meglio dei discepoli di Cristo, i primi banditori della Buona Novella, i protagonisti della « Rivoluzione della Croce?». È uno degli aspetti meno studiati, ma dei più appassionanti dell'opera di Gesù, durante i tre anni del suo ministero, l'impegno tutto pedagogico con cui scelse e formò coloro che avrebbero avuto il grave compito di succedergli. Ricordiamo la cura con cui Egli designò i Dodici e più tardi, per aiutarli, i settantadue! Rileggiamo nei Vangeli le istruzioni che dà ad essi e il modo con cui li mette alla prova! Sacrificare tutto alla causa, anche la propria vita: ecco quello che Gesù attendeva eia loro quando diceva: « Non prendete nè oro nè argento, nè moneta alcuna pel viaggio, nè due tuniche, nè calzari, nè bastone! » o quando egli proclamava il principio, che è il principio stcss::>della rinunzia tc,tale: « chi non porta la sua croce e non mi segue non può essere mio discepolo». E nello stesso tempo ricordiamo anche le innumerevoli frasi, spesso misteriose, con cm

472 DANIEL ROPS Gesù indicava a1 suoi l'avvenire che dovevano creare, l'opera che dovevano far nascere. « Lasciate che i morti seppelliscano i morti! ». Forse non è stata mai detta una formula più _rivoluzionaria di questa breve frase <li Gesù. Un personale simile, formato a tutte le virtù dell'eroismo e del sacrificio, imbevuto dal desiderio di far trionfare la concezione del mondo alla quale· s'era votato, non poteva non essere _mirabilmente efficace. E lo fu. Vorremmo evocare tante e tante ammirevoli figure che in tre secoli, a costo della propria vita, hanno mutato le basi del mondo. È straordinario, infatti, che per tre secoli queste figure di eroi si siano rinnovate, insieme uguali e diverse, in una prodigiosa fioritura. Le forze di· sacrificio e di conquista, che riconosciamo nei primi apostoli, le osserveremo attraverso almeno una dozzina di generazioni, ugualmente attive, efficaci. Tra un san Giovanni, un sant'Ignazio d'Antiochia, un san Cipriano di Cartagine e perfino un san Giovanni Crisostomo e un sant' Ambrogio, la parentela spirituale e morale è evidente. È la stessa fiamma, la stessa certezza che arde in tutti questi uomini e fa la loro forza; fiamma e certezza che si chiamano fede in Cristo! · Se non volessimo ricordare che un solo eroe della « Rivoluzione della Croce», una figura s'imporrebbe alla nostra mente: quella di san Paolo, l'apostolo dei GeAtili, il più straordinario propagandista che abbia mai servito una causa in tutta la storia. Guardatelo, il piccolo ebreo di Tarso, ,, di mediocre statura», tozzo, colui che si diceva egli stesso « un aborto! ». Che potenza si sprigionava da lui, che invincibile energia! Così talvolta negli esseri quasi deboli in apparenza si vede raggiare un'autorità incomparabile, più commovente perchè accoppiata a non so quale misteriosa fragilità: è questa la potenza dello spirito. Guardatelo; da quando è stato folgorato sulla via di Damasco e s'è sentito chiamare per nome, nessun istante della sua vita che non sia stato consacrato al servizio di Cristo, nessuna forza del suo essere che non si sia votata a fare amare colui che l'aveva amato tanto da colpirlo al cuore .. Per ben ventidue anni, attraverso i più ostili paesi dell'Asia Minore, tra le folle greche dallo spirito scettico sarcastico, egli conduce, senza venir mai meno, la vita del soldato di Cristo. Nessun arresto, nessun indugio. « Sono stato oppresso - egli scrive - ma mai schiacciato; spogliato di tutto, ma mai disperato; battuto, ma mai vinto>>. E che intelligenza dei problemi che gli si presentano! Si tratti dei rapporti tra il Cristianesimo e gli ambienti ebraici dove questo ha avuto radici, o col pensiero greco o con l'organizzazione romana, san Paolo sceglie sempre, d'istinto, la soluzione più ammissibile, quella che sarà più in grado d'assicurare una crescente espansione alla sua dottrina. E quando finalmente la mano degli

RO~IA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE 473 sbirri di Roma s'abbatte su di lui, quando deve sottoscrivere col sangue l'impegno di tutta la vita, allora accetta con meravigliosa serenità le torture della prigionia, gli orrori del futuro supplizio. « Ho combattuto la buona battaglia - dice con semplicità - e ora la mia corsa è finita! >>. Ecco che cos'è un rivoluzionario della Croce! Un personale dunque cli tempra eccezionale; questa è stata la prima fortuna ciel Cristianesimo nel momento in cui stava per iniziare la lotta. Molte cause umane, però, hanno avuto soldati capaci di sacrificarsi per esse. Ciò non serve a nulla, anzi porta all'insuccesso se la causa non ha in sè una dottrina capace d'assicurare durevolmente le basi ciel mondo che si vuole creare. Un uomo l'ha eletto in termini precisi, un uomo al quale non si neghecà il merito d'aver saputo che cosa sia una vera rivoluzione: "Non c'è azione rivoluzionaria senza dottrina rivoluzionaria» (Lenin). La dottrina del Vangelo è la più rivoluzionaria che sia mai stata insegnata. Il grande grido cli Gesù: « Siate trasformati » era bastato, dal momento in cui era risuonato sulla terra, a romperla con i modi cli procedere della coscienza antica. La Welta11schauung, la concezione del mondo c dell'uomo apparivano radicalmente nuove e ciò bastava a mutare tutto. A questo punto è necessario intendere bene in che senso si può dire che il Cristianesimo sia una forza rivoluzionaria. Non è una dottrina sociale e politica, non è in nulla una « tecnica ciel colpo di Stato», ma soltanto, poichè applica alla società umana i più mirabili principi sovrannaturali, determina in questa una modificazione totale, provoca una rottura col passato che è morto. Così·, nel dominio della morale, là dove la società antica era afAitta eia terribili malattie che si chiamavano divorzio, prostituzione, ab:irto, infanzia abbandonata e contro le quali tutti i tentativi cli legislazione imperiale erano falliti, il Cristianesimo, solo facendo appello alla purezza interiore e proclamando la santità del vincolo coniugale, arriva a guarire queste piaghe. Non sono le leggi cli Augusto, è il principio del Vangelo che trasformerà la famiglia, cellula della società. Lo stesso accade nella morale sociale. La società antica soffriva confusamente della durezza della sua organizzazione in classi. La schiavitù, una necessità, imposta dalle esigenze della produzione economica in un tempo in cui le macchine non esistevano, era ammessa da tutti, ma le menti migliori sentivano in essa una piaga aperta nel fianco dell'organismo sociale. Lo -schiavo era «una. cosa», un animale che si Poteva trattare come si voleva e perfino uccidere. Il Cristianesimo, solo perchè addita in ogni uomo un fratello, un'immagine viva ciel Dio d'amore, rovescia le basi di questa iniquità. Ormai la schiavitù potrà sussistere in quanto istituzione:

474 DANIEL ROPS la legge della carità ne avrà sconvolto, rivoluz ionato le abitudini, e l'avrà resa umana. L'assoluta originalità della « Rivoluzione della Croce» si coglie analizzandone i mezzi. E qui è necessario capire be ne in che cosa la « Rivoluzione della Croce» sia stata una rivoluzione d iversa da tutte le altre, una rivoluzione unica nella storia dell'umanità. Tut te le rivoluzioni della storia hanno infatti utilizzato sempre, come mezzi, la violenza e l'astuzia, ed anche quando i loro combattenti mettono personalmente a se rvizio della propria causa le più alte virtù d'abnegazione e di generosità, i moventi più segreti restano sempre l'invidia e la vend etta. Proudhon esclamava: « Non si arriva a nulla senza quella ]eva p0tente che è l'odio!». « La Rivoluzione della Croce» è l'unica che, nelle inte nzioni e nei metodi, abbia fatto appello a quanto è più contrario alla n atura dell'uomo, che abbia utilizzato pei suoi fìni la segreta complicità del l'istinto e del cuore. Amare i propri nemici, perdonare le offese, umiliarsi, rinnegare se stesso: conosciamo forse un'altra rivoluzione che sia stata fatta in nome di tali prin- ~ cipi? e quale vittoria p0litica è mai stata conse guita con le sole armi della giustizia e della verità? È questo un vero mistero, un mistero profondo quanto quello formulato da Cristo stesso allorchè, alla vigilia dell a sua morte, annunziava ai fedeli che avrebbe vinto il mondo morendo sulla croce. Nella « Rivoluzione della Croce» è la debolezza che divc~ ta forza, è la povertà che diventa ricchezza. Non abbiamo dunque rag ione di dire che si tratta della più totale, della più straordinaria rivoluz ione? Dobbiamo aggiungere che il successo della « Rivoluzione della Croce» è stato aiutato dalle circostanze. Essa è venuta al momento opportuno e i cristiani, che fìn dal V secolo hanno affermato che c'era stato un provvidenziale incontro tra i destini dell'Impero e q uell_i del Cristianesimo, non avevano torto. La situazione rivoluzionaria, che doveva permettere alla società cristiana di sostituirsi a quella pagana, si va precisando durante i primi tre secoli. Certo, quando il Vangelo gett ava il suo primo seme, non sembrava che l'Impero di Roma potesse essere minacciato! Il gigantesco Impero, nato dai pazienti sforzi dei discendenti di Romolo, offriva, nel primo secolo, un'impressione di maestà e di fo rza quale forse nessun'altra dominazione del mondo aveva mai offerta. Est eso dall'Armenia ai lidi del Marocco, dalla Scozia al Danubio e al Sahara, mirabilmente organizzato, , in un sistema insieme agile e fermo, era l' ideale dell'ordine vagheggiato dagli uomini e la Pax romana esaltata da Plinio non era una parola vana. Due osservazioni però qui s'impongono. Anz itutto l'ordine romano doveva naturalmente favorire l'espansione cris tiana e la penetrazione del Vai-gelo. Il fatto che si parlava il greco da un capo all'altro dell'Impero,

ROMA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE 4ì5 ii fatto che le strade erano numerose e sicure, che la stessa moneta aveva · corso dappertutto, costituivano facilitazioni che gli Europei del ventesimo secolo, inceppati da frontiere e controlli doganali, potrebbero ben rimpiangere. Gli Apostoli e gli Evangelisti hanno utilizzato la pace romana per seminare la Buona Novella, e questo è un dato di capitale importanza. D'altra parte, però, nel potente {?rganismo che era allora l'lmperium romanum, c'erano delle profonde incrinature che i pagani più perspicaci avevano scorto chiaramente. E queste incrinature s'allargheranno sempre più durante i primi quattro secoli, fin a quando tutto l'edificio crollerà sotto l'urto dei Barbari. L'organizzazione del regime che si appoggia solo sulla forza determina, nel campo politico, crisi sempre più frequenti, sempre più violente. Dalla morte di Nerone nel 68 a quella di Teodosio nel 395, non ci saranno meno di trenta rivoluzioni o colpi di mano. Nell'ordine morale abbiamo già segnalato le piaghe sanguinose dell'antico organismo. Nell'ordine sociale, ci troviamo sempre più di frontè a una popolazione pigra, colpita da paralisi, che non vuole più nè lavorare, nè combattere, nè aver figli; una popolazione che lo Stato deve nutrire per tenerla tranquilla e che abbrutisce distraendola coi giochi degradanti del circo. Nell'ordine religioso, constatiamo un'angosciosa crisi che va crescendo e tormenta 'la coscienza dell'uomo antico. La vecchia religione romana non è più che un culto ufficiale. Si fanno venire dall'Oriente divinità d'ogni genere, più o meno,strane, cui si vota un culto mistico, talvolta elevato, talvolta particolarmente degradante. Si ha l'impressione che l'anima antica vada a tentoni nelle tenebre, chiamando in aiuto i misteri d'Orfeo, i miti di Iside, le cerimonie del sanguinoso battesimo di Mitra. Le peggiori superstizioni si scatenano: l'astrologia e la magia contano migliaia di adepti. Una società, che presenta di queste incrinature, è senza dubbio ferita a morte. Ecco dunque lo schema storico secondo il quale si opererà, durante i primi quattro secoli, quella che abbiamo chiamato la « Rivoluzione della Croce». Da un lato assistiamo alla progressiva disgregazione della potenza romana e della società antica, che, minata dai suoi vizi, scivola sempre più verso la decadenza, pur con soprassalti e riprese, ma ineluttabilmente. Dall'altro constatiamo il progresso continuo e irresistibile della nuova formazione nata da Cristo. Servita dal personale rivoluzionario dei Santi e degli eroi la dottrina rivoluzionaria del Vangelo utilizza le favorevoli circostanze offertele dalla situazione rivoluzionaria in cui 'si trova l'Impero di Roma per assidersi sulle rovine. Verrà il giorno dunque in cui, caduta in dissoluzione la società antica, la società cristiana si sostituirà ad essa. In quel momento la « Rivoluzione della Croce » avrà trionfato.

• DANIEL ROPS II Come è avvenuta questa sostituzione, come si è operato questo rinn ovamento delle basi della società per opera del Cristianesimo ? È ovvio che il fenomeno non ha potuto compirsi da sè, e senza determinare vive reazioni. Un organismo saldo e potente come l'Impero di Roma non poteva lasciarsi gettare nell'abisso e permettere a un a ltro sistema di sostituirlo, senza che ci fosse, da parte sua, una tragica resistenza. La storia dei primi tre secoli è la storia di questa resistenza, di questa lotta, di questa tragedia. Un simile conflitto era inevitabile, o meglio si sarebbe po tuto evitare solo se il Cristianesimo non fosse stato quello che era: una dottrina chi:imata all'espansione dalla più interiore necessità. Se il Cri stianesimo fosse rimasto quello che era in origine, una piccola setta ebraic a, nata in quel minuscolo angolo dell'Impero che era la Palestina, è più ch e probabile che Roma non avrebbe ritenuto opportuno di prenderlo in cons iderazione. Una setta di più o di meno tra gli Ebrei, le sarebbe sembrata cosa priva d'interesse. Ma la dottrina evangelica, fin da quando era sgorgata dalla voce del Signore sulle colline di Galilea e di Giudea, era s tata destinata a diffondersi, uscendo dalla cornice ristretta della sua culla. « Non bisogna lasciare la lucerna sotto il moggio!» aveva detto Gesù e quando stava per risalire al Padre aveva dato ancora un ordine ai suoi f edeli: « Andate cd evangelizzate tutte le genti». li gran merito della prima generazione cristiana fu proprio quello d'orientare la nuova propaganda nella stessa direzione in cui in avvenir e si sarebbe affermata. Già Pietro, il principe degli Apostoli , l'antica pietra su cui Gesù aveva inteso fondare la sua Chiesa, aveva capito questa esigenza nel celebre episodio del centurione Cornelio che ci è ripo rtato negli Atti degli Apostoli: una visione aveva ordinato a lui, ebreo fedele e pio, pel quale ogni contatto con un pagano era una macchia, di a ndare a trovare l'ufficiale di Cesarea e di farne un cristiano. Ma fu soprat tutto la geniale intuizione di san Paolo, l'azione assidua di tutta la sua v ita, che orientò definitivamente il Cristianesimo verso quell'universalità che era in sostanza in tutto l'insegnamento del Signore. Il giorno in cui l'Ap ostolo dei Gentili lanciò la sua celebre formula: « Non ci sono più nè Greci, nè Giudei, nè circoncisi, nè incirconcisi », si può dire che proprio in quel giorno egli abbia impegnato il Cristianesimo in una lotta mortale contro l'antica società: l'uomo nuovo da lui affermato doveva sostituire l'uomo come l'intendevano la Grecia e Roma. Il suo istinto di gran riv oluzionario non l'ingannava.

ROMA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE 47'i Ma, di colpo, il Cristianesimo si trovava impegnato in un dramma: l'opposizione tra esso e l'Imperatore Romano non avrebbe tardato a manifestarsi. Dobbiamo intendere bene fino a che punto fosse inserita nella fatalità degli eventi. Abbiamo or ora osservato che l'ordine romano, che la pace romana avevano favorito l'espansione cristiana; ma al tempo stesso sono proprio questi fatti che dovranno determinare il dramma in cui si troveranno di fronte il Cristianesimò e la romanità. La mirabile organizzazione dell'Impero, così come esisteva nel primo secolo, capace di assicurare la felicità dei sudditi, appariva infatti alla coscienza antica, per la quale· tutto dipendeva dal Destino, dal Fatum, come una manifestazione della potenza divina. Questa convinzione s'era concretizzata in una forma religiosa che era sorta fin dal tempo cl' Augusto e s'andava di continuo sviluppando: il culto imperiale, il culto di Roma e Augusto. Roma e Augusto, è l'espressione divinizzata del benessere sulla terra, d'un regno che non è nel cielo, ma quaggiù. È la prosternazione dell'uomo davanti alla forza, quando questa sembra garantire l'ordine. Basta ascoltare due piccole frasi pronunziate da Gesù per misurare fino a che punto la cosa fosse inaccettabile per un cristian::i: « li mio Regno non è di questo mondo!» e « Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio!». Per il solo fatto dunque che il Cristianesimo era venuto a contatto con l'Impero, i cristiani che negavano il culto di Roma e Augusto, che non potevano assolutamente parteciparvi, si trovavano nella situazione di non-conformisti, di ribelli. Da qui il dramma sanguinoso che si prolunga per tre secoli ed è chiamato Persecuzione. La storia delle persecnzioni fa mirabilmente capire come i princ1p1 stessi del Cristianesimo, principi di sacrificio totale, di carità e di dolcezza, abbiano potuto essere il più efficace lievito rivoluzionario e alla fine dei conti rovesciare il loro carnefice. Cominciata nel 64 sotto Nerone, la persecuzione durerà fino al 320, il che vuol dire che per 260 anni, anche quando c'era una tacita tregua nella violenza (e qualcuna durò quasi trenta anni) un cristiano non era mai sicuro di non essere preso la mattina seguente dalla polizia imperiale e trascinato al pretorio, o di non trovarsi sull'arena d'un anfiteatro di fronte a un leone inferocito. È proprio questa atmosfera d'orrore e di terrore che dobbiamo cercare di cogliere per misurare quel che fu l'eroismo sempre rinnovato di quelle generazioni di fedeli che all'abiura preferirono la morte tra i più atroci supplizi. Quando si pensa a questi martiri, si è spesso portati a dimenticare il lato orribilmente realista della loro storia. Poichè il racconto della loro Passio ce li mostra assai spesso mentre cantano nei supplizi ed hanno sulle labbra solo preghiere e grida d'amore, noi dimentichiamo quel che mate-

DANIEL ROPS rialmentc significhi essere martirizzato. Essere spalmato di pece e cli res ina e poi arso vivo; essere scarnificato da uncini di ferro per ore intere; trova rsi nudo, legato a un palo, mentre una belva s'avanza a passi felpati su lla sabbia dell'arena: ci vuole molta fantasia per provare l'orrore di simili situazioni? E la cosa che più commuove è il pensiero che quegli uomini e quelle donne così martirizzati non erano diversi da noi. Se li soste nevano l'amore di Dio e la fede più sublime, tuttavia essi avevano i l oro nervi e provavano paure terribili. Conosciamo dei racconti in cui alcu ni martiri, in attesa del supplizio, parlano in carcere della sorte che s arà loro riservata. Si domandano se il colpo del carnefice fa molto male, se si soffre molto per morire arsi vivi, discutono sul modo di fare de lle fiere, dell'orso che uccide lentamente, con una specie di dolcezza fero ce, e del leopardo che recide la gola con un colpo d'artiglio ... Sappiamo anche che alcuni condannati venivano meno al momento supremo e acc ettavano di prosternarsi davanti agli idoli; la cosa è troppo umana per )Tleravigliarsene e anzi ammiriamo maggiormente quelli che hanno tenu to duro fino all'ultimo. È inutile citare nomi tra tante ammirevoli figure; qualunque enumerazione sarebbe ingiusta. Per 26o anni, si sono succedute generazioni e generazioni cli cristiani che hanno avuto l'eroismo d'accettare tutto pi uttosto che tradire, e questo è quello che conta. La loro funzione storica è stata perfettamente definita eia Tertulliano in una celebre frase: « Il sangue elci martiri è seme di cristiani ... ». L'eroismo ha qualche cosa di comunicativo; l'esempio dei grandi martiri esaltò l'anima cli coloro che desiderarono seguirne l'esempio. Che cosa doveva pensare un bambino, come il piccolo Origene che ad Alessandria aveva assistito al supplizio ciel padre? Che cosa doveva provare una madre cristiana il cui figlio era morto da soldato cli Cristo? Una meravigliosa emulazione doveva determinarsi tra i fedeli e fu senza dubb io una causa d'espansione profonda. È proprio vero che, seminando il sangue dei martiri, Roma fece germogliare veri cristiani. Anche negli ambienti pagani fu notevole il valore dell'esempio dato dai martiri. Conosciamo innumerevoli casi cli carnefici convertiti d all'eroismo delle loro vittime, di spettatori del circo sconvolti dall'atte ggiamento dei martiri. La leggenda cli san Genesio non è anche molto significativa? Dopo aver rappresentato per vari mesi sulla scena un bozze tto blasfemo in cui parodiava il martirio dei cristiani, finisce per essere c onquistato dalla dottrina stessa che schernisce, e riappare un 'ultima vo lta sulla scena, ma questa volta martirizzato davvero! (,>. ( 2 ) L:a critic:i storie:. ha dimostrato che un Genesio mimo romano nurtirc non esiste; nondimeno gli :mi che \!anno sotto questo nome non sono che una vari:mte di un racconto che ha un fondatncnto storico sicuro. d'importazione orientale. largamente diffusa a cau)a dell'interesse suscitato

ROMA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE 479 Non è soltanto pel suo valore di propaganda che l'eroismo dei martiri ha una funzione determinante nella « Rivoluzione della Croce »; lo è anche perchè a poco a poco fece sentire al potere imperiale che non c'era nulla da fare per estirpare la nuova dottrina. Che cosa potevano fare alcuni c;rnefici e magistrati fanatici contro uomini che invocavano il supplizio ed avevano sulle labbra soltanto preghiere ed inni d'amore? Sant'Ignazio d'Antiochia, portato ~ Roma per essere gettato alle fiere, scriveva: « Per diventare il pane bianco di Cristo, è necessario che, come il frumento, io sia stritolato, e lo sarò sotto i denti delle fiere!». Contro un eroismo fatto di tenacia e di pazienza, il più tirannico potere perdè tutti i suoi mezzi. La storia delle persecuzioni non è altro che la presa di coscienza sempre più netta da parte di Roma, della sua assoluta incapacità a vincere il Cristianesimo. Possiamo dividerla tn tre grandi periodi - e non in quelle dieci persecuzioni di cui una, tradizione molto discutibile mantiene ancora il numero. Nel primo periodo, l'Impero non sembra rendersi pienamente conto dell'opposizione essenziale e definitiva che esiste tra il Cristianesimo e lui. Solo per caso Nerone ricorre alla violenza, perchè ha bisogno di un diversivo al furore della folla che l'accusa di avere incendiato Roma. Per lungo tempo non c'è una legge generale contro i cristiani. Traiano scrive al suo legato Plinio il giovane che non bisogna perseguitare i cristiani, ma che, se essi sono ·denunziati e convinti di essere tali, bisogna punirli. In questo periodo, quindi, le persecuzioni dipenderanno dalla buona o cattiva volontà dei magistrati più o meno eccitati dall'ira e dalle stupide chiacchiere della folla. A partire dal 202, da Settimio Severo, la politica romana cambia. Il Cristianesimo diventa un delitto, una ribellione permanente, una colpa di lesa maestà. Le persecuzioni si fanno sistematiche; editti generali ordinano d'arrestare tutti coloro che sono sospetti di Cristianesimo e di obbligarli a sacrificare agli dei. È il peggiore momento del terrore anti-cristiano; il momento in cui la vita religiosa si rintana nelle gallerie delle catacombe. Queste rigorose misure durarono fino agli albori del IV secolo e 1a più terribile persecuzione sarà l'ultima, quella di Diocleziano. Ma l'unico risultato di tali misure fu quello d'irrigidire il Cristianesimo nella sua fiera determinazione. Quando leggdmo parecchi atti dei martiri dove spesso sono riportati i termini precisi degli interrogatori, constatiamo chiaramente che, di decennio in decennio, la coscienza cristiana è più salda, più forte, più sicura di avere per sè l'avvenire. Arriverà <la urrasituazione apparentemente così paradossale. Cfr.: BERTI-IA vo:,.; DER L\CE, Stmlien ::;ur Genesiuslegende, Berlino, 1898; C1-1.VA:-. DE VOkST. Une passion incWite de S. Porphyre le mime, in <( Analccta Bollandiana ». voi. xxix, 1910 (11. d. r.).

DANIEL ROPS il giorno in cui questa convinzione si farà strada nell'animo dei per secutori. A poco a poco si osserva che la mano del carnefice trema. Alcu ni imperatori, come Alessandro Severo e Filippo l'Arabo, si mostrano tolleranti. Si racconta il drammatico episodio della morte dell'imperator e Galerio che, malatissimo di cancrena, divorato dai vermi, dichiara c he è il Dio dei cristiani che lo colpisce e prima di morire revoca l'editto d i persecuzione. A partire dalla fine del Ili secolo, l'Impero sospetta di non poter più vincere la nuova dottrina; la Chiesa cristiana ha tanti segu aci che, politicamente, non è più possibile abbatterla. È vicino· il momento in cui Costantino deciderà di farsene un'alleata. Dunque, fu proprio l'eroismo dei martiri, il loro inesauribile spiritQ di sacrificio che portarono la « Rivoluziope della Croce» alle soglie della vittoria. Ma que,ste virtù sarebbero da sole bastate? Forse no. Un 'al tra azione fu indispensabile e determinante nella lotta quanto quella dei testimoni di Cristo: l'azione dei pensatori cristiani, di coloro che un'espressio ne generica chiama Padri della Chiesa. Un proverbio arabo afferma che i « l'inchiostro dei sapienti è ben più prezioso del sangue dei martiri ", e certo vuol dire molto. Non è il caso di stabilire una competizione tra due tipi di servitori della fede, tanto più che molti pensatori e scritt ori cristiani dei primi secoli sono stati martiri essi stessi e hanno s:>ttoscr itto col sangue l'opera letteraria da essi innalzata a gloria di Dio. La storia delle origini della letteratura cristiana non è meno importante di quella delle persecuzioni; l'una e l'altra sono state determinan ti nella « Rivoluzione della Croce"· Agli inizi, nei decenni che seguirono la morte di Gesù, i primi scrittori cristiani s'erano limitati a fissar e i ricordi immediati dei testimoni del Maestro, relativi alla vita e all'in segnamento di Lui. Erano nati cosl, tra il 6o e il 100 circa, i quattro Evangeli. Press'a poco nello stesso tempo, erano stati raccolti i fatti e le gesta degli Apostoli e le più importanti lettere che avevano scri tte in vita: cosl il Nuovo Testamento era stato completato dagli Atti de gli Apostoli, le Epistole e l'Apocalisse. I primi Padri, quelli che sono chiamati Padri Apostolici, si limitarono a commentare i libri santi, a da re lezioni di spiritualità e di morale. Ma presto appare nel pensiero cristiano una nuova tendenza. Sviluppandosi in seno alla società antica, penetrando nelle classi intellettuali, il Cristianesimo sco.pre il pensiero, la filosofia, l'alta letteratura. Alcuni p en- 'satori cristiani si rendono conto del va.ntaggio considerevole che ci sare bbe utilizzando, a beneficio della dottrina evangelica, i mezzi del pensie ro antico; essi scoprono perfino che ci sono stati, nella grande letteratu ra pagallol, elementi utilizzabili dal Cristianesimo. Ci spieghiamo cosl, co me

ROMA E LA RIVOLUZIONE DELLA CROCE il pensiero di Platone sia stato in un certo senso assorbit'o da qualche scrittore per essere trasformato in dottrina cristiana. Questo molteplice sforzo sarà condotto da parecchie generazioni di pensatori cristiani: gli Apologisti, che si studiano di far comprendere ai pagani la dignità della fede in Gesù e la bellezza dei suoi principi; poi 1~ grandi scuole del III secolo tra le quali brilla ip prima linea quella d'Alessandria, quella di Clemente e d'Origene. Un Padre & questo tempo, san Gregorio Taumaturgo, scriveva: « Dobbiamo scrutare con tutte le nostre forze i testi degli antichi, filosofi e poeti, per attingervi i mezzi con cui approfondire e propagare la verità ». Qual'è stato sul piano della storia il risultato di questo sforzo? È stato immenso. Grazie ai suoi pensatori, la Chiesa cristiana ha acquistato coscienza dei problemi che le si presentavano. Ha assorbito gli elementi apprezzabili della civiltà antica; ha abituato i suoi membri a rispettare, nella tradizione pagana, che tuttavia combattevano, i grandi valori umani. Ed è proprio per tutte queste ragioni che, nel momento 'in cui l'Impero crollò e la società antica si decompose in una spaventevole cancrena, il Cristianesimo fu pronto a sostituire quel mondo in isfacelo. Proprio perchè ha avuto, non solo eroi rivoluzionari, ma pensatori audaci, pronti ad afferrare l'avvenire, la Chiesa ha potuto collocarsi nella storia come l'erede di Roma, è stata così assicurata la successione della Croce all'Impero. Il 25 ottobre 312, a pochi° chilometri da Roma, sulle rive del Tevere, si svolse una delle più importanti battaglie della storia, la battaglia di Ponte Milvio. Costantino, con un esercito di Galli e di Germani, rigettò al di là del fiume i resti delle schiere del suo rivale Massenzio il cui corpo fu ritrovato galleggiante sulle acque. Questa vittoria era assai più d'un episodio da aggiungersi ai tanti e tanti che le guerre civili moltipli- .cavano allora. Lo storico Eusebio ha narrato che, nel momento d'attaccare il combattimento definitivo, Costantino aveva visto in cielo una croce luminosa e aveva sentito una voce profetica gridargli: « In questo segno vincerai!», In ogni modo è certo che l'anno seguente, il 313, a Milano, egli prendeva delle misure tali da riconoscere al Cristianesimo il pieno diritto di vivere nell'Impero. Possiamo dire che in questo preciso momento la « Rivoluzione della Croce » conseguiva la vittoria <i>. Allora però si presentò al Cristianesimo tutto un insieme di problemi nuovi. La rivoluzione che sta per trionfare vedeva modificarsi di molto (3) Il Rops lascia giustamente :lil·autore della •< Vita Constantini 1) la rc~porn,:1biJitd:ìel sogno o della visione costantiniana; il valore storico del cositlctto editto di Milano rcst~1 in:dterato anche se oggi, in generale, il gesto ~li Costantino viene inserito dagli storici, al cli fuori di ogni preoccupazione apologetica, nella serie dei provvcclimcnti imperiali imesi a dare un'uniti't spiritu:1\c :l.ll'org:rnismo statale romano (11. d. r.).

DANIEL ROPS le prospettive secondo le quali era solita impegnare i suoi soldati. Durante il IV secolo, dal regno di Costantino a quello di Teodosio, si offriranno molti problemi cui si dovranno trovare soluzioni valide se non si vorrà vedere il Cristianesimo rovinare con l'Impero sul quale si è insediato e che sta per naufragare. Tutti questi problemi si riducono a uno; quello stesso che i pensatori cristiani avevano intuito: bisognava preparare la sostituzione della Croce all'Impero prima che fosse troppo tardi. È allora che la Chiesa, perfezionando il grande compito d'organizzazione che fin dalle origini non ha mai cessato di perseguire, mette in atto un sistema amministrativo particolarmente agile e forte. I vescovi, scelti quasi sempre con singolare cura, basano la loro autorità sulla venerazione del popolo, ma questa autorità è assoluta e nessuno pensa a discuterla. Mentre i funzionari imperiali sono sempre più detestati, perchè rappresentano un regime d'oppressione poliziesca e fiscale, i vescovi appaiono sempre più quali difensori della città, titolo che il potere pubblico finirà col riconoscere. Nella compagine stessa della Chiesa l'organizzazione si fa sempre più coerente e salda, mediante le grandi assemblee, i Concili in cui si riuniscono i rappresentanti di n1tte le cristianità, con la preminenza sempre più riconosciuta della sede apostolica, del vescovo di Roma, successore di san Pietro. Cosl, nel momento in cui i barbari si gettano sull'Impero e ne abbattono la metà, è la Chiesa che diventa l'armatura della società ed è lei che manterrà un'autorità diversa da quella della forza quando, nel V secolo, i re vandali, visigoti o burgundi saranno succeduti ai legati imperiali. Contemporaneamente lo sforzo del pensiero cristiano produce allora risultati prodigiosi. Mentre la letteratura pagana non conta più che compilatori di compendi, di manuali e di dizionari, la letteratura cristiana iscrive nel suo programma tutto quello che è vivo. Nutriti di Virgilio e di Cicerone e di filosofia greca, i grandi scrittori del IV secolo, quali san Giovanni Crisostomo, san Gerolamo, sant'Ambrogio, s'inseriscono nella linea d_iretta della grande letteratura. E notate, è proprio nello stesso momento, nel momento in cui l'arte antica naufraga nel fittizio, nel colossale, nel magniloquente, che l'arte cristiana esce dalle segrete profondità delle catacombe e la sostituisce; che appaiono le commoventi figure e i simboli degli affreschi cristiani e che le basiliche costantiniane innalzano le loro linee pure là dove sorgevano gli ultimi templi. Si può dire che in questo momento « la Rivoluzione della Croce» trionfi, ancora però non senza minacce, non senza scosse. Per alcuni anni, nello stesso IV secolo, Giuliano l'Apostata riprende la lotta contro il Vangelo e}enta di ridar forza al paganesimo per opporlo a Cristo. Ma fallisce:

ROMA E LA RIVOLUZlONE DELLA CROCE la Chiesa è ormai la più forte. Gl'imperatori stessi, siano essi cnstiani o pagani o eretici, non possono più tentare di sottometterla ai loro voleri. Un mirabile fatto che si verificò aUa fine del IV secolo, ci fa sentire magnificamente dove risiedesse ormai la vera autorità e a chi spettasse l'avvenire. Era allora imperatore Teodosio e non era certo un uomo mediocre. Questo spagnolo ardente e coraggioso aveva tentato - di opporre una tenace resistenza aUe forze di dLSgregazione sempre più minacciose. Cristiano convinto, egli aveva firmato il famoso editto già da noi ricordato e aveva fatto del Cristianesimo la religione ufficiale dei suoi stati. Nel 380, Teodosio commise un abbominevole delitto, cosa che del resto non era rara nelle abitudini di quel tempo violento. Essendo stato compiuto a Tessalonica l'assassinio di un funzionario, l'imperatore aveva ordinato di massacrare il poPolo raccolto nell'anfiteatro e ne era seguita una spaventosa carneficina. Fu allora che di fronte all'onnipotente desposta, si levò un. uomo, Ambrogio, vescovo di Milano. Grande funzionario romano entrato nella Chiesa, di nobile famiglia, d'intelletto superiore, formato alle più alte tradizioni della cultura, era soprattutto un animo intrepido, l'erede diretto dei grandi vescovi dei secoli precedenti, gli Ignazi, i Policarpi, i Cipriani che fino alla morte avevano tenuto testa alla forza; il perfetto rappresentante di quella nuova aristocrazia cristiana chiamata a salvare il mondo. Ambrogio non aveva armi, non aveva potenza: nient'altro che la parola di Dio. Intrepido, scrisse a Teodosio per suscitare in lui l'orrore del delitto e lo scomunicò. Per parecchi mesi, istigato da giuristi cortigiani, l'imperatore tentò di resistere. Ma tutte le chiese si chiudevano davanti a lui, e i funzionari cristiani si domandavano se dovessero ancora obbedienza allo scomunicato. Teodosio capì che non poteva governare contro l'opPosizione della Chiesa e si sottomise. Nella notte di Natale del 380 si potè vedere sulla piazza di Milano il padrone del mondo che, deposti i sontuosi abiti imperiali e vestiti quelli della penitenza, supplicava sant' Ambrogio di riaprirgli la porta della Chiesa. In quel momento « la Rivoluzione della Croce » trionfava. Era data la prova alla storia che una dottrina puramente spirituale, basata sulla dedizione e l'amore, era più potente delle potenze terrene. Il mondo riceveva l'assicurazione che, di fronte alla barbarie pronta a scatenarsi sull'occidente, esisteva un'attività capace di tenerle testa e rivendicare i diritti eterni della persona umana, minacciata di continuo dalla forza e dalla iniquità. In quel momento anche l'audacia creatrice dei primi apostoli, lo spirito di sacrificio dei martiri, lo sforzo dei Padri della Chiesa ri,eveva la sua ricompensa: grazie ad essi, la più incredibile delle rivoluzioni diventava un fatto storico.

DANIEL ROPS Audacia creatrice, spirito di sacrificio, sfo rzo di pensiero sempre attento a cogliere, a suscitare l'avvenire, non so no forse questi gli elementi d'un esempio continuo? E non sappiamo pu re che, se « la Rivoluzione della Croce» è stato in passato un fatto storico, essa è uno dei dati fondamentali della coscienza umana? Contro le forze della violenza e dell'odio questa rivoluzione deve sempre ricominciare. DANIEL RoPs ..

LA DOTTRINA LINGUISTICA DI DANTE Del De vulgari eloquentia Alessandro Manzoni diede, com'è noto, un giudizio negativo. Nella lettera indirizzata a Ruggero Bonghi, a scusa di non aver fatto cenno del trattatello dantesco, nella relazione da lui stesa per conto della commissione incaricata dal Ministro Broglio di riferire sull'unità della lingua e sui mezzi di diffonderla, egli afferma: (< Riguardo alla questione della lingua italiana, quel libro è fuor de' concerti, poichè in esso non si tratta di lingua italiana nè punto nè poco ». E ancora: « Dante era tanto lontano dal pensare a una lingua italiana nel comporre il libro in questione, che alla cosa proposta in quello non dà mai il nome di lingua ... Se Dante non diede al Volgare illustre il nome di lingua, fu perchè, con le qualità che gli attribuisce, e con le condizioni che gl'impone, nessun uomo d'un buon senso ordinario, non che un uomo come lui avrebbe voluto applicargli un tal nome» (Nuovi scritti sulla lingua italiana, Torino 1868, p. 26). Il giudizio è palesemente ingiusto e non si può spiegare se non con il molto amore che quel grande ebbe per la tesi « toscana » e con il conseguente desiderio di togliere o sminuire agli avversari di essa l'accampato sostegno della testimonianza dantesca. Contro la prima affermazione sta tanta parte del primo libro qel trattato, in cui si parla di lingua del sì e di vulgare Latium. Quanto alla seconda, è palese che la denominazione di «volgare» vuol mettere l'accento sul carattere, che qualifica la lingua di uso comune, nei confronti della lingua colta, del latino, che è per Dante ancora « lingua nostra» (Purg. VII, 17); d'altra parte, almeno una volta egli chiama lingua anche il volgare illustre (« hoc enim usi sunt doctores illustres qui lingua vulgari poetati sunt in Ytalia >> I, xix, 1) e dà lo stesso nome, oltre che alla comunione linguistica del sì, come a quelle d'oil e d'oc (« tertia quoque - lingua è sottinteso - que Latinorum est ... » I, x, 3-4), anche alle parlate dialettali(« lingue hominum variantur, ut lingua Siculorum cum Apulis, Apulorum cum Romanis, Romanorum cum Spoletanis, horum cum Tuscis ... » I, x, 8). 11Manzoni giudica che Dante abbia inteso parlare solo « del linguaggio della poesia, anzi di un genere parti-

ANTONINO PAGLIARO colare di poesia» (p. 28) e, forzando un poco il suo argomentare, conclude che « nel libro De vulgari eloquio, non si tratta di una lingua, nè italiana, nè altra qualunque» (p. 30). · Naturalmente, quanti si sono occupati del De vulgari eloquentia solo in rapporto alla famosa ed annosa « questione » della lingua italiana, se sostenitori della tesi della « toscanità », hanno preso contro esso atteggiamento ostile e negativo, come il Manzoni o più: dal Machiavelli nel Discorso o dialogo della nostra lingua, pieno di risentimenti· e di irrispettose punte contro il poeta, al padre Cesari che nella Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana si difende, negando, come già il Varchi ed altri, l'autenticità del trattato ( « e al tutto, come dice il Varchi, a leggere quell'opera, ci bisogna venire a queste due cose; a dir, che fu uno stordito, uno sciocco e vano scrittore, l'altra che a se medesimo col fatto e con l'oper a contraddisse », 3• ed., Milano, 1829, p. 103). Ma anche chi si è avvicinato al trattato dantesco con intendimento più critico, non è riuscito a sottrarsi alla suggestione di misurarlo sul letto di Procuste della famosa « questione ». Così il D'Ovidio nella nota dissertazione Sul trattato « De vulgari eloquentia », ripubblicata in Versificazione italiana e arte pot:tica medioevale, Milano 1910 <•>, dopo avere liberato Dante dall'accusa radicale mossagli dal Manzoni di non avere affatto tra ttato di lingua, non manca di aggiungere rimbrotti propri per la sua insuff iciente toscanità teorica: « Che se nel libro secondo parla Dante più di stile e d'arte poetica che di lingua, nel libro primo però è evidente che egli vu ol proprio parlar di lingua, e che, suppergiù, ne parla jn modo che poteva co ntentar il Trissino e il Perticari. Sennonchè, io cerco di mostrare come Dante , pur intuendo assai felicemente quanto di letterario vi dovess'esser nel la lingua colta, non riuscisse dall'altro lato a ben misurare quanto ella doves se al dialetto, in particolare al toscano; ingannato com'egli era dalla fal sa luce con che gli si presentavano i fatti letterari del tempo suo, dai pregiudiz i della sua mente, dalle preoccupazioni del suo animo, da una catena quind i di illusioni; inevitabili certo, a quei tempi, il che scusa Dante, ma pu r sempre illusioni, il che deve togliere ogni pericolosa autorità alla par te erronea della sua dottrina » (p. 448). E il Rajna, al quale si deve molto per la cura critica del testo del trattato, non è meno severo: « Questa (se. la Divina Commedia), imponendosi d'un tratto all'ammirazione universale degl'italiani, decise, senza po s- • sibilità di opposizioni efficaci, la questione della lingua. Ed essa ve niva col fatto a risolverla in favore del toscano non solo, ma proprio del fioren - (1) Ristampata nell:i sccond.:tparte del volume Versificazione romanza, Poetica e pouia medie• ,,a/~ Napoli I1932 (Opere di Ft. D'Ovidio IX, 11).

LA DOTTRINA LINGUISTICA DI DANTE tino, sbaragliando e dissipando, checchè Dante potesse forse ancora addurre in loro difesa, le teoriche artifiziose e le troppo sottili distinzioni del De 11ulgarieloquentia » (Le origini della lingua italiana in Gli albori della vita italiana, p. 253). . I due insigni studiosi hanno, mi pare, torto a prendersela con il De vulgari eloquentia. Essi proiettano la questione della lingua ai tempi di Dante negli stessi termini, oserei dire,assurdi, nei quali si è trascinata per cinquecento anni. Come poteva Dante riconoscere il valore della toscanità nei suoi termini reali, se la bilancia piegò' a favore del toscano, e del fiorentino in particolare, poichè per l'appunto Dante stesso gettò sul piatto il peso formidabile della Divina Commedia? Ma anche con la Commedia egli non si pose contro i principi di unificazione posti in quel trattato, ma li applicò con maggiore larghezza e spregiudicatezza che non nelle rime e nella prosa volgare, in conformità al « genere )), alla vastità umana della «Commedia)). La lingua del poema è pur essa lingua d'arte, cioè creazione riflessa e sorvegliata da ùna «ratio)) linguistica, che sceglie e plasma a suo modo la materia del dire, anche quando questa derivi dalla « materna locutio )), Epperò, sono questi problemi complessi che ci porterebbero molto distante. A noi qui basta il rilevare come l'avere attratto il De vulgari eloque11tia nel giuoco della polemica sulla lingua abbia assai nociuto ad un'esatta comprensione e valutazione della dottrina linguistica di Dante. Le storie della linguistica non ne toccano o ne fanno solo fuggevole cenno. Lo stesso Croce nella parte storica dell'Estetica non ricorda (4' ed., p. 206 sg.), ma lo fa a titolo di onore, se non la definizione della parola come segno (rationale signum et sensuale). La meritoria opera del Marigo (« De vulgari doquentia )) ridotto a miglior lezione e commentato, Firenze 1938), che ci fornisce un'attenta esegesi della lettera del testo, non si è proposta di definire in particolare la posizione del trattato nella storia della teoria della lingua. Questo ba fatto invece il Nardi nel suo pregevole saggio ripubblicato nel volume Dante e la cultura medievale, Bari 1942, Il linguaggio, p. 148 sg., ma solo in riferimento alla speculazione medievale. Noi qui ci proponiamo di stabilire il valore, per dir cosl attuale, della dottrina linguistica bandita da Dante nel De vulgari eloquentia. I punti più importanti su cui, a nostro parere, cade più vivida la luce del pensiero dantesco, sono la nozione del divenire delle forme espressive in rapporto con il trasformarsi degli uomini e delle società umane, la nozione di comunione linguistica in rapporto con la varietà dei dialetti e delle parlate locali, la nozione, infine, di lingua comune come opera cosciente di elezione. Ve ne è abbastanza per collocare Dante del De vulgari eloquentia fra i classici della teoria della lingua.

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