Quaderni di Roma - anno I - n. 2 - marzo 1947

PIETRO PAOLO TRO~IPEO infaticabik ministero gli lasciava, ,, nelle fermate dei viaggi, negli :ilbcrghi, nelle più svari:ite situazioni e in circostanze non sempre favoreYoli »), non potè certo non pensare ai celebrati e allora esemplari romanzi di Walter Scott. Ma l'idea a cui la Fabiola s'informa è quella stessa che aveva avuto Chateaubriand nei Martiri e eh·egli poi compromise in una rappresentazione sensualmente patetica se non addirittura dilettantesca: l'urto dei due mondi, il pagano e il cristiano, in un momento decisivo della storia, alla vigilia dell'avvento di Costantino. Il romanzo è intrecciato con una certa grossa abilità, come altri ro. manzi che hanno avuto fortuna presso il gran pubblico, come - per un esempio che non deve scandalizzare nessuno - li padrone delle ferriere di Georges Ohnet. Come nel Padrone delle ferriere, si muovono in que!- i'intreccio d:i cui il lettore è preso - e ne fummo tutti pn:si da fanciulli - personaggi che hanno ben poco di vivo e di umano, personaggi-fantocci. Ma poichè la Fabiola ci presenta l'urto di due princìpi, il bene e il male, i fantocci si dividono in due schiere: luminosi gli uni, tenebrosi gli altri. Si salvano in l]Ualchepunto, sotto il rispetto dell'arte, alcuni, se mai, dei personaggi tenebrosi. D'una certa efficacia è la rappresentazione del processo psicologico per cui il cristiano Torquato s'inducc a faFsidelatore dei suoi compagni di fede e l]Uella del rimorso che l'accompagna nella trista impresa e poi l'induce al pentimento. Parimenti non privo di forza è il ritratto dell'infame avventuriero che si nasconde sotto il nome di Fulvio, l:i dove l'odio generato in lui da una lunga serie di delusioni lo spinge a un atto di disperazione: l'assassinio di Fabiola, salvata poi dal sacrificio della fedele schiava Sira, che si scopre allora, melodrammaticamente, esser la sorella di lui, Miriam. In questi episodi, forse, la pratica dei peccatori, al tribunale della penitenza, venne in soccorso all'arte malsicura del romanziere. Ma fantocci, pii fantocci, son tutti più o meno i personaggi esemplari: il generoso Pancrazio, la intemerata Luc;na, l'intrepido Sebastiano, l'ingenua Cecilia, la celestiale Agnese. Anche qui noi non abbiamo bisogno cli rinnegar le lacrime che da fanciulli versammo copiose su queste pagine. Non l'arte del romanziere ci spremette dagli occhi « quelle antiche l:tcrime buone », ma quanto di sublime semplicità era passato nel romanzo dagli Atti dei Martiri, o dal Vangelo, o dal Catechismo. li torto dello scrittore sta nel non esser riuscito quasi mai a fondere la sublimità di quelle parole o di quei gesti con la realtà quotidiana che il romanzo deve rappresentare, con la naturalezza della vita domestica o cittadina, con la vicenda stessa del racconto. Raramente ci accade di riconoscere che lo scrittore ha trovato il tono giusto. Lo trova, a volte, in episodi marginali, direi quasi ornamentali, che non hanno col racconto un nesso necessario. Di Tarcisio, il fanciullo la-

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