QVADERNI DI ROMA RIVISTA BIMESTRALE DI CVLTVRA DIRETTA DA GAETANO DE SANCTIS ANNO I - MARZO 1947 - FASCICOLO 2 SANSONI - EDITORE
Comitato di Redazione G. DE SANCTIS, pmid,nte - R. ARNOU - G. COLONNETTI G. ERMINI - A. FANFANI - P. P. TROMPEO Segretario di Redazione P. BREZZI Direzione e Redazione CASA EDITRICE SANSONI - VIALE GIULIO CESARE, 21 - ROMA INDICE A. D. SERTILLANGELSa:politica bcrgsoniana e la creazione ex nihilo 101 PIETROPAOLOTROMPE:ORomanzi di preti . . I 11 JACQUEMSARITAINL: a fine del machiavellismo . . . . • 124 Uco N1coLINI:Legalità e democrazia nella tradizione storica italiana 142 GwsEPPEREvERBEFIA: lcuni moderni risultati delle scienze biologiche 152 FRANCESCGOABRIELIR: icordo di Michelangelo Guidi . . . . . . 161 Recensioni: A. Momigliano (L. PIETROBONo); D. Redig de Campos (A. PRANDt)L; 'Economia italiana nel 1947 (A. FANFANI)N; . Rodolico, A. Fanfani, L. Dal Pane, ecc. (D. BELTRA><Wt);. Beveridge (B. Cow,rno) . . . . . . . . . . . . . . . . 172 Note di Cronaca: Cronache politiche Cronache sociali (FERDINANDO LoFFREoo) 193
LA CRITICA BERGSONIANA E LA CREAZIONE "EX NIHILO,, * Nel suo notevole studio su Enrico Bergson, il collega Emilio Bréhier ha messo in luce la critica del suo predecessore, relativa all'idea del nulla. Pseudo-idea, diceva l'autore dell'Evoluzione creatrice, che solleva pseudo-• problemi. Tra questi problemi, che non sono tali e che non è dunque il caso di tentare di risolvere, dovremmo forse includere la creazione ex 11ihilo, che è tradizionale nella Chiesa cattolica e sta a cuore di tutti i cristiani, anche se l'intendono erroneamente ? Certo il nostro collega non ha torto quando attribuisce quest'idea al suo predecessore, riportandosi al momento dell'Evoluzione creatrice, ma allora Bergson mostrava, come molti altri, una certa con-fusione d'idee dalle quali però, una volta più edotto, non poteva non liberarsi. Se ne è liberato, infatti, e ve ne darò subito le prove. È noto che l'autore dell'Evoluzione creatrice ha subìto anch'egli una evoluzione che l'ha portato, di tappa in tappa, fino al cattolicesimo integrale, ultima forma del suo pensiero. Su questo punto il suo testamento è preciso, ed Emilio Bréhier, nel suo saggio così obiettivo e completo, non manca di ricordarlo. Ora, il nostro grande collega era troppo serio per non dirsi che, in caso di conversione esteriore e cli battesimo - e sapete perchè lo abbia differito - egli avrebbe dovuto recitare il Credo, il cui primo articolo è questo: Credo i11Dio, Padr.e onnipotente, Creatore del cielo e della terra. C'è una creazione vera e propria, al di fuori della creazione ex nihilo ? No certo. Tutto il resto è demiurgia, emanatismo o panteismo, tutte • Nella saluta del 1• aprile 1946 <lcll'fostit111 de France, Emilio Bréhicr, l'insigne storico clcib llll)sofia, presentò un ~aggio sul suo illustre predecessore Enrico Bergson, 11cl qu:1lc segnalava una t<"Si bcrgsoniana in contraddizione ,pp:m."ntc con l'idea Ji crcnionc. A sua volta il r. p. Sc:1tik1ng:cs rispose Jc,::gcndo il M:gucmc studio. che ha. voluto cortesemente inviarci
102 A. D. SERTILLANGES dottrine ostili al pensiero cattolico, e del resto affatto estranee al pensiero di Bergson. Bergson non è panteista: l'ha sempre dichiarato e il suo Dio è molto ben distinto dall'universo ove la sua bontà si manifesta. Non è emanatista, perchè il suo Dio è un agente libero e l'universo è il risultato d'una « generosità che si dona ». Quanto alla demiurgia, essa è ben lungi dal suo pensiero; egli infatti non presuppone alla causalità divina nè materia, nè caos, nè leggi, nè una qualunque condizione che ne potrebbe limitare il carattere totale. Ora, una volta scartate - il che faremo subito - le false interpretazioni di questa formula, è questo, e questo soltanto, la creazione ex 11ihi/o. Poco prima che morisse, avevo trattato quest'argomento con lo stesso Bergson e m'aveva risposto: « In realtà, tra la vostra dottrina e la mia, non c'è che una differenza di vocabolario e di metodo». Al suo metodo ci teneva molto, ed è naturale. Ci teneva pure al vocabolario, perchè diceva: esso indica le articolazioni del reale. Questo pc:rò non gl'impediva, all'occorrenza, di discernere e sottoline::re l'essenza delle cose. Ed ora eccomi a trattare la questione vera e propria. Se prendiamo alla lettera l'espressione: la ·creazione ex 11ihilo, dovremmo intendere - poichè la preposizione ex indica un punto di partenza - che il mondo è stato preceduto dal nulla e gli è succeduto per opera della potenza divina. Oppure, se si tratta d'un punto di partenza, non nel tempo, ma nell'ordine delle dipendenze, vorrebbe dire, checchè ne sia della durata del mondo e fosse anche infinita, che, senza Dio e razione di Dio, ci sarebbe il nulla; ma che per opera di Dio il nuìl~ si pr1pola e così il mondo esiste. Questa è la distinzione che Enrico Bergson ha voluto ~egnalare quando ha scritto che abitualmente il nulla ~ considerato com,· anteriore o meglio sottostante all'essere stesso. Ora dobbiamo ben riconoscere che il cristiano ignorante intende l:.i creazione proprio nel peggior senso dell'espressione ex nihilo; l'ignorante ed anche la maggior parte dei cristiani colti, seguìti da più d'un teologo, sebbene per questi ultimi ci siano diversi correttivi, capaci di attenuare lo scandalo filosofico preso di mira da Bcrgson. Se chiedete a un ragazzo che impara il catechismo - e molti cristiani non vanno oltre questo primo stadio di cultura religiosa - come intende la creazione d~l mondo per opera di Dio, vi risponderà: In principio non vi era nulla, tranne Dio. Ma Dio decise di creare il mondo; lo creò con la sua opera ed è così che il mondo esiste. « In principio non c'era nulla»: ecco la «reificazione» dei nulla denunziata dal nostro insigne collega. Che cos'è il momento in cui non
LA CRITIC.\ BERGSONIANA E LA CREAZIONE EX NIHILO 103 c'•~t :, nulla ? Che cos'è questa durata vuota, questa pura attesa che non ha alcun supporto ? Evidentemente si tratta solo d'un gioco di fantasia o d'un gioco di concetti. Noi applichiamo le nostre categorie mentali a qualche cosa che non ha più nul_laa che vedere con esse. Dal fatto che una cosa òella nostra esperienza può esser prima questo e poi quello, prima assente dalla realtà delle cose e poi presente, noi concludiamo che l'universo nel suo insieme può essere prima inesistente e poi esistente, prim:1 nulla e poi essere. Ma questo è un puro gioco di fanciulli. Noi trascuriamo di tener presente che non si può parlare d'un principio assoluto di tutte le cose come si fa d'un principio particolare nel corso delb durata attuale. Un principio assoluto non ha nulla che lo prececla, neppure il nulla che non è nulla. In questo caso non c'è precessione, il che supporrebbe un'esistenza. Per quanto la cosa possa sorprenderci, non abbiamo il diritto di dire che il mondo, prima d'esistere, non esisteva. È questo prima che non esiste. Il mondo, dunque, non è passato dal nulla all'essere. Per passare, essQ avrebbe dovuto già essere. Il mondo non è punto divenuto e non è un divenire che spiega la sua attuale esistenza. Non è accaduto nulla. Non vi è nessun avvenimento, nessun fatto nuovo, nessuna successione di stati. C'è, è vero, un primo stato del mondo, almeno nell'ipotesi del tempo finito, che è l'ipotesi da noi esaminata per prima, ma non è uno stato 1//10110, poichè non ve n'è alcuno cui paragonarlo. Ancora una volta, non è accaduto nulla. Come potrebbe avvenire qualche cosa nel nulla ? Il nulla non è 11ncampo d'azione, non è un ricett~colo. È soltanto il rifiuto da parte d'uno spirito pensante, d'ammettere qualche cosa. Pura negazione, insomma, cui non risponde alcuna positività. Allora, che cosa dire delle espressioni correnti, or ora ricordate ? Che dire del linguaggio bibiico dove tali espressioni si trovano dappertutto ed anche del linguaggio dei teologi, che non esitano, fossero anche pensatori profondi, a. usare un vocabolario che riconoscono affatto deficiente ? È semplicissimo. li vocabolario non è fatto per simili immagini. La nostra esperienza è costituita dal relativo e il linguaggio la r:ispecchia; òico il linguaggio e a·nche i concetti usati dal nostro linguaggio interiore. Ma non occorre che ciò passi nei nostri giudizi. La cosa è ben diversa. Quando dico che il sole sale all'orizzonte, non ritengo che il sole si muova; indico con ciò indirettamente il movimento della terra. Allo stesso modo, quando si tratta delìa creazione, tutti si esprimono correntement~ nella maniera già detta, ma, se l'ignorante s'inganna lasciandosi trasportare dall'immaginazione, il pensatore riflette e tiene. conto di quel che c'è <liunico in un problema riguardante la primissima origine delle cose. Così s. Tommaso d'Aquino, rispondendo a coloro che gli obietta-
ti. D. SERTILLAKGES vano es5ere impossibile una creazione ex niliilo perchè tale azione non ;1vrebhr terreno ove prodursi, nè soggetto su cui applicarsi, scrive con molta calma: Tale obiezione suppone che la creazione sia un cambiamento, una mutazione, un passaggio. Proprio questo: un passaggio dal nulla all'essere. Ora, egli dice, la Geazione non è questo. La creazione non è un passaggio, non è un cambiamento, non è una mutazione, tranne che nel nos~ro modo d'intendere. Infatti, è proprio della natura del mutamento che una cosa sia prima così e poi in un altro modo. In certi casi è uno stesso essere, attualmente esistente, che si trova influenzato in maniera divers:i prima e dopo, come accade nei c::imbiamenti quantitativi, qualitativi o di luogo. In altri casi, si tratta d'uno stesso essere che prima è solo in potenza, poi in atto, come nei mutamenti sostanziali di cui il soggetto è la materia. Ma quando si tratta della creazione, dalla quale è prodotta tutta l;i sostanza delle cose, compresa la materia, non si può cogliere nessun elemento comune che potremmo dire trovarsi in due stati successivi - il che si verifica per la sola intelligenza - come se si dicesse che una stessa cos:i in origine non esisteva punto ed in seguito esiste. · Si avverte subito tutto quel che c'è di puramente concettuale nella pretesa successione d'un essere non esistente, sostituito dallo stesso essere esistente. Supposto nel reale, ciò è affatto assurdo; ma ci si sente l'invincibile illusione creata in noi dall'esperienza dei cominciamenti relativi, che partono sempre da qualche cosa per :irrivare a qualche cosa. Ora, siccome l'agire e il patire, l'azione prodotta e l'azione ricevuta, continua il nostro pensatore, s'incontrano nell'unica realtà del mutamento e ne differiscono solo secondo relazioni diverse, come dice Aristotele nella Fisica, se ne deduce che, eliminato il mutamento, restano solo, nell'essere creatore e in quello creato, relazioni diverse. Ecco dunque che la creazione, significata figuratamente e concettualmente come un'azione operante un cambiamento, vale a dire un passaggio, per opera di Dio, dal nulla all'essere, si trova ridotta, pel pensiero metafisico, a una doppia relazione reciproca: relazione dalla causa all'effetto da parte di Dio, relazione dall'effetto alla causa da parte della creatura. C'è inoltre che, siccome le relazioni di Dio verso la creatura sono anch'esse puramente concettuali, senza di che Dio sarebbe dipendente, e siccome tali relazioni sono un semplice effetto prodotto in noi dal bisogno di correlazione che la pratica c'impone (come se avessi un albero a destra e, spostandomi rispetto ad esso, dicessi poi che è a sinistra, sebbene non si sia mosso) resta in tutto e per tutto, per definire la creazione, una rela-
LA CRITICA BERGSONIANA E LA CREAZIONE EX NIHILO I05 zione unilaterale di dipendenza, di dipendenza totale, dell'essere creato in rapporto al suo Creatore. La creazione è questo soltanto. L'idea del nulla e pseudo-problemi, che essa fa nascere, ne sono ben !ontani ! Si può, dopo quanto s'è detto, parlare d'evoluzione ? Si può considerare questa evoluzione come creatrice, nel senso in cui l'intende Bergson ? È chiaro che la creazione ex 11ihilo, interpretata come abbiamo visto, non opporrebbe alcun ostacolo. Che co~'è un'evoluzione? È un modo di comportarsi dell'universo, iecondo i! quale le forme naturali, e in particobre le forme vive, realizzano una storia e non già, come voleva Cuvier e come si è creduto assai spessoin passato, un'eterna ripresa degli stessi cicli. Ora, se la creazione ex 11i/1ilo significa solo una dipendenza totale cli tutta la realtà, compresa la durata, dal Principio creatore, è chiaro che gli scambievoli rapporti degli clementi creati e i loro rapporti con la durata universale non vi sono punto interessati. Tonsi tratta che di legislazione interiore del cosmo. Le sue relazioni esteriorisono le stesse; esso è sempre sospeso a Dio e dipendente da Dio come dalla sua prima concfo:ione. Quanto all'evoluzione detta creatrice, non dobbiamo lasciarci ingannare dalle parole. Un giorno Bergson m'ha ringraziato d'aver detto nella mia opera intitolata Dio o 1iulla: l'evoluzione bergsoniana non è un'evoluzione che crea: è un'evoluzione in cui c'è creazio11e. Non si tratta cli sostituirea Dio uno dei processi della sua opera, come se volessi sostituire al ghiacciaioun certo regime delle acque nel torrente. Si tratta di scegliere, tra i processidella natura, quello che meglio risponde all'esperienza e non è, secondo Bergson, un semplice svolgimento che parte eia un dato primitivo acquisito una volta per sempre, ma una vita ove c'è sempre del nuovo, come nelle invenzioni ::irtistiche dove i temi e le loro variazioni si succedono, senza che ci siano limiti c'a assegnare alle loro possibilità. Qui si tratta sempre d'un regime interiore. Le relazioni del cosmo, prese nel loro insieme, non ne sono punto influenzate. Tutto l'essere non è pertanto meno dipendente dalla sorgente dell'essere. Come se io dicessi che un uomo, il quale canta e compone come Mozart, sia meno figlio di Dio c1·unaltro che ripete punto per punto una canzone imparata. Nessuna difficoltà in questo. A parer mio, i'cvoluzione creatrice di Bergson vi aderiscecon piena convinzione; solo essa rende conto dei fatti e della loro multiforme sovrabbondanza. Ciò non m'impedisce punto di mantenere
I06 A. D. SERTILLANGES la creazione ex 11iliilo che è un problema trascendentale e non una questione di regime interno per la realtà in se stessa. M:i la cr1t1Cabergsoniana del nulla sussisterebbe ancora, se questo nulla fosse considerato, non come anteriore; bensl come sottostante alla azione creatrice, il che avverrebbe se si credesse il mondo eterno tuttavia clipendente da Dio ? No certo. Ma eliminiamo anzitutto un grosso equivoco. Quando parliamo d'un mondo eterno, per indicare un mondo che dura da sempre, usiamo un'espressione infelicissima che genera molti qui pro quo. Nulla è piL1remoto da una vera eternità di quel che non lo sia un mondo senza principio. La vera eternità infatti è tensione e non estensione. F. perfezione compiuta e in pieno possesso di se stessa, non g1a m divenire e in perpetua ricerca. La sua immagine sarebbe un punto raggiante invece d'una retta senza estremi. È sempre un fatto che questa eventualità cl'un mondo, che non ha principio e che non deve finire, non sia punto esclusa dalla filosofia. Finora la teologia l'ha scartata. I cristiani credono che Dio abbia creato il mondo in initio temporis, come dicono i documenti dei concili, non nel senso che il mondo sia stato creato in un momento· di una durata anteriore ed esteriore al mondo stesso, il -che farebbe riapparire il nulla or ora espulso, ma nel senso che il mondo dipende da Dio in tutti i suoi istanti, a partire da un primo, detto per eccellenza momento della creazione, riservando la parola conservazione per esprimere la su:i creazione permanente, ciò che Cartesio chiamava la sua creazione continua. I cristiani preferiscono questa ipotesi finitista; è quelb dei documenti ufficiali, benchè alcuni tendano a preferire l'altra, senza per questo sconfess:ire ciò in cui credono, ma perchè ritengono che forse quella non sia secondo le regole. I Padri della Chiesa, che hanno costituito la tradizione e i testi in cui essa si esprime, sembrano considerare l'affermazione d'un mondo detto eterno equivalente all'esclusione o alla limitazione della causalità creatrice, o, in ogni caso, a un 'uguaglianza della creatura e del creatore sul terreno della durata. Ora noi abbiamo visto che questi timori sono infondati e che questi pensatori credono che le due vie possano restare aperte. Comunque, dal punto di vistJ in cui ora ci troviamo, la cosa è per noi perfettamente la stessa. Nulla è mutato nella creazione in quel che ha d'essenziale, cd 'è proprio di somma importanza per questo nostro stu-
LA CRITICA BERGSONIANA E LA CREAZIONE EX NIHILO 107 dio e per molti altri, liberare l'idea di creazione dall'idea di cominciamento che l'ingombra, ne dissimula la cognizione e favorisce i pseudoprobkmi. Se il mondo ha un principio, esso è creato, non pcrchè comincia, ma perchè il suo primo istante, come poi tutti gli altri, è alla dipendenza di Dio con tutto ciò che il tcmPo trac con sè: sostanze e attributi, uomini e cose.Se il mondo non ha principio, ci sono in perpetuo esseri legati a Dio riaquesta dipendenza causale che dona loro tutto e che in questo caso non conoscepunto di partenza pili che punto d'arrivo. SecondotjUesta ipotesi, la creazione del mondo si confonde con una perpetua conscrvaz10.ic. Qu~r.rlo noi cristiani parliamo tra di noi della conservazione dei mondo per opera di Dio, ci accade di esprimerci nella maniera seguente: Se a un certo momento, Dio cessasse di sostenere nella loro esistenza gli e~seriria lui creati, se ritirasse la sua grande mano, subito tali esseri ricadrebbero ne! nulla dond<:sono usciti. A questo punto mi par di vedere il sorriso del collega Bergson che guarda con stupore questo nulla ove Dio lascierebbc cadere l'universo come se fosse un grande buco o, diciamo più nobilmente, un abisso. Eppure, caro Maestro, questa è una grande immagine e chiedo che sia mantenuta. lhsterà capirne il senso che è il seguente: i momenti come le ere dipendono da Dio e d:illa rn2 eterna volontà. Se questa eterna volontà ~mmettesse la limitazione dei giorni dcll\mivcrso a questo numero e non a quello, sarebbe proprio così e, raggiunto tale limite, senza bisogno di alcuna azione distruttiva, nulla di creato esisterebbe più. on si trattereH,e cl"unamorte che ha degli agenti e obbedisce a leggi concrete; sarebbe invece un annichilamento o meglio, per eliminare l'idea del nulla che può dar fastidio, sarebbe un cessare rii essere. Non passiamo negare a Dio questo potere. L'essenziale è che i'c:spressioncfigurata di ciò non faccia torto al giudizio e si veda chiaro che questo ,;iudizio è semplicissimo. La mano di Dio di Rod;n, non è evidentemente che un simbolo. L'abisso del nulla su cui saremmo sospesi è un altro, come un altro lo era già il nulla che precede il mondo. Ma dietro i simboli, resta la realtà, cioè la sospensione del mondo a Dio come alla sua pi1'ialta e più necessaria condizione. Tutto ciò mi sembra chiarissimo e inattaccabile dalle obiezioni, a meno che non si voglia oppDrvi tutto un sistema di cui si dovrebbe anzitutto dimostrare la verità. E ora mi potrete domandare: perchè i teologi che non sono poeti e che pure sanno esprimersi in termini puri, come lo fact'va s. Tommaso
ro8 A. Il. SERTILLANGES d'Aquino, persistono ad usare correntemente espressioni fallaci e ad allineare sistemi d'idee che si prestano alle obiezioni dei pen~atori ? La ragione è che la teologia è essenzialmente catechistica, vale a dire destinata a tutti, non soltanto ai metafisici, e tale carattere si nota già nella Bibbia ov<'la teologia attinge i suoi dati. Occorre dunque che il linguaggio teologico sia, per quanto è possibile, il linguaggio di tutti, cioè quello dei f:rnciulli, salvo, nei punti opportuni, a correggerlo per i grandi che in l)Uestocaso sono i pensatori. Solo a questa condizione, la teologia sarà veramente religiosa, poichè h religione non è un «mandarinato» e si preoccupa della salvezza di rutti. Potrei facilmente farvi capire come tale essoterismo sia essenziale alla vita spirituale e ai testi che l'alimentano, se vi mostrassi quali agguati s'incontrano nello sviluppo del tema metafisico or ora enunciato e a quali preoccupanti paradossi esso metta capo. In varie circostanze ne ho messi molti sotto gli occhi degli stessi filosofi e debbo dire che ancora alcuni non si sono ricreduti. Immaginate che un buon curato, imbevuto di filosofia, svolga così una sua predica: ,, Fratelli miei, la creazione di cui oggi parleremo, è un avvenimento tanto straordinario che non è un avvenimento. Quando avvenne, non accadde nulla. Prima ... un prima non c'è poichè la durata è contemporanea alle cose come il puro spazio è coestensivo al suo contenuto e non oltre di esso. « Dio non è mai esistito senza il mondo, nè il mondo è mai esistito 5c:nzaDio, poichè la durata di Dio non è al di là della nostra, nel suo prolungamento, ma al disopra ed è indissolubile. Si dice che Dio abbia fatto tutto cd è vero che tutto esiste per opera sua, ma il Tutto dell'universo non si potrebbe creare perchè non c'è nè materia, nè spazio, nè durata per farlo. Per conseguenza, dal momento che nessun:i possibilità di mutaméi,to temporale mette capo a lui e che nessuna possibilità di mut:1mento lo riguarda, come sarebbe il suo pervenire all'essere, il suo passaggio cbl nulla all'essere o una nuova volontà di Dio riguardante il suo cs~erc, nessuna di queste formule si addice. " Nulla è mutato in Dio per il fatto della creazione. Non si può dire che egli abbia creato dopo non aver creato, come non si può dire del r..1ondoche esista dopo non essere esistito. E neppure da parte nostr:t nulia ~ mutato, poichè mutare significa essere prima questo e poi quello, e siccome in questo caso il prima s'annulla, il quello rim:ine affatto solo. Nessun mutamento, nessuna novità; l'essere puro, senz'altro riferimento che (;ivino. « Da lJuando esiste il mondo ? Non lo sappiamo. I filosofi dicono chc potrebbe essere da sempre, e in l!uesto caso si eviterebbe una difficoltà molto strana. Risalite con la mente indietro, nel tempo, e arriverete a un
LA CRITICA BERCSONl.~NA E LA CREAZIONE EX NIHILO 109 primo giorno. Poichè il prima non esiste, voi urtate contro una frontiera ciK ha un territorio solo da tin lato. D:ill'altro ... l'altro non esiste. t sorprendente ! « Per evitare ciò, se ammem:te solo frontiere vere e proprie, con due territori dai due lati, Aristotele approva, s. Tommaso filosofo consente, e voi dovrte allora porre dappertutto delle frontiere, poichè ogni momento della durata è principio e fine. « Avrete così un mondo infinito nella durata. Nuovo turbamento per il pensiero ! Turbamento maggiore agli occhi di alcuni, minore per altri. Comunque, però, do1•rctemandar giù il paradosso che il mondo, anche se finito nella durata, anche se ha avuto un principio, è tuttavia esistito sempre perchè non c "è momento in cui non sia esistito, dato che un cominciamento assoluto di tutto non ammette nessuna anteriorità, nè spaziale nè temp0ralc. « Tutto ciò vi disorienta e mi domandate che cosa sia insomma la creazione ? Ve lo dico: è un rapporto. Dio esiste, il mondo esiste per opera sua, e l]Uesto è tutto. Questo per opera sua è ciò che diciamo creazione; è la dipendenza, anche del mondo, che lo fa dire creato. Da ciò risulta il nuovo paradosso che il mondo, in l]Ualche modo, preesiste alla · sua stessa creazione. Certamente, dato che è un semplice rapporto e per conseguenza un attributo, la creazione s'innesta sulla sostanza delle cose. "E così, l'ordine delle nozioni non è, come si potrebbe credere, il seguente: 1" Dio, 2" la creazione, 3" il mondo. Quest'ordine si addice all"analisidcll"azione in via di durata. Ma trattandosi di causalità non temporale, poichè comprende la stessa durata, trattandosi delle causalità radicali, secondo l'espressione di Leibniz, la cosa non va più. Si deve dire: anzitutto Dio, che è 5rn1pre ii primo in tutto; secondariamente il mondo e solo in terzo luogo la creazione che è il rapporto del mondo con Dio, la sua dipendenza totale. « :t un'idea che sgomenta quanto volete, ma è propno questa l'inevitabilecondizione del problema. E non servirebbe a nulla scrivere:· QuestrJ problema non lo porrò! Esso si pone da sè, e volerlo rcspingac perchè ci abbaglia, sarebhc somigliare alla talpa di Victor Hugo che sogghigna nella sua galleria sotterrane.i dicendo: Mi fanno ridere, col loro sole! ,, li sole è necessario per illuminan.: la terra. Dio è necessario per pensare ]°universoche, senza di lui, non sarebbe che un sistema di nulla. Con Dio è un sistema di esseri dipendenti dal primo essere, dalla fontana dell'essere, come dice s. Tommaso. « li rapporto è qui un rapporto di dipendenza e di comunicazione, una partecipazione secondo l"espressione platonica. C'è t]Ui una generosità eh-: si dona, come dice Bcrgson. Voi conoscete questo pensatore che ha detto essere il nulla una pseudo-idea, da cui nascono pseudo-problemi. Perciò
110 A. D. SERTILLANGES non vi ho parlato del nulla, di gucl nulla donde il mondo sarebbe uscito come da una scatola, o su cui sarebbe portato come una foglia dtloto sul• l'.icgua. Ma Bergson non ha detto la stessa cosa del problema di Dio». Non vi pare, cari colleghi, che il mio buon curato non ragioni poi troppo male ? A parer mio ragiona benissimo. È proprio così. Ma penso che pochissimi del suo uditorio l'avranno capito e forse nessuno. E allora, nella sua prossima predica, concediamogli il diritto di dire molto semplicemente e d'accordo con la Sacra Scrittura: « In principio Dio creò il cielo e la terra. Prima non c'era nulla, tranne Dio. Dopo, visto in ogni tempo, se da sempre il mondo esiste, c'è il mondo, perchè in principio, o al disopra, c'è Dio». A. D. SERTILLANGES
ROMANZI DI PRETI li romanzo storico è nell'Ottocento una forma nuova o quasi nuova. E s'intende che abbia avuto così gran favore in un secolo in cui il senso storico s'è anelato via via allargando, approfondendo, affinando, e in cui d'altra parte, caduti in discredito gli schemi accademici della così dett:t epopea, gli scrittori si son volti di preferenza a un modo di narrare, quale c-ssivedevano nel romanzo, non consacrato dagli esempi illustri dell'antichità classica, e però sfuggito alle maglie dell'accademismo classicizzante. S'intende che poi ognuno narrava come poteva e ~apeva, e così ognuno si poneva dinanzi alla storia secondo il suo proprio punto di vista e, meglio ancora, secondo il suo proprio modo di sentire. I raggruppamenti son sempre pos~ibili, fra scrittori nati nella stessa etii: ma questi raggrupp:11nentivengono a sciogliersi per dar luogo ad altre associazioni e dissociazioni, quando chi osservi si renda ben conto di nuove e più vere somiglianze e dissomiglianze. Si possono, per un esempio, raggruppare Chateaubriand e Manzoni in quanto assertori tutti e due della verità cristiana. Ma diversissimo poi è il loro modo di narrare e di rappresentare, come diversissimo è il loro modo di sentire il cristianesimo. Il modo di narrare e di rappresentare di Chateaubriand è più o meno quello che più d'un secolo prima aveva seguìto Fénclon. La prosa dc' suoi Martiri è nel filo di quella del Telemaco. Prosa-poetica, ricca di letterarie perifrasi, fitta di similitudini. classicheggianti. E il tono, più che di romanzo secondo la comune accezione di questo termine, è di poema epico, con descrizioni di tempeste e di battaglie riprese da Omero, da Virgilio e magari da Lucano e adattate al gusto Empire, come in Fénelon erano adattate al gusto o a certo gusto Luigi XIV. Ma la sensuale malinconia di Chateaubriand, la sua torbida e inquietante religiosità, e quel suo morbido egotismo che lo porta a veder nella storia una collezione d'aggetti rari o patetici e che fa di lui il primo dei decadenti - tutto ciò insomma che indusse Sainte-Beuve a definirlo "un epicureo dall'immaginazione cattolica» - non permette un ulteriore avvicinamento dell'autore dei Martiri all'autore del Telemaco. Per
112 PIETRO P,IOLO TROMl'EO la sua delicata eticità, per il suo cristianesimo vivo e operante, Fénclon è ben più vicino al Manzoni, che nel modo di narrare e di rappresentare si apparenta invece a Walter Scott. E più ancora, per quel soffio di platonismo cristiano che circola nel suo romanzo o poema, Fénelon è vicino al Wiseman di Fabiola e al Newman di Callista: a Newman soprattutto, così greco anche lui. Romanzi di preti, dirà qualcuno che pensa alla mitra arcivescovile di Fénclon e alla porpora cardinalizia di Wiseman e di Newman. Romanzi di preti, precisamente .. Accettiamo senz':tltro la formula, di cui tra qualche minuto daremo ragione. Ma prima mi si consenta una digressione brevissima. li romanzo storico d'ambiente antico romano ha avuto nell'Europa ottocentesca una rigogliosa fioritura. Ancora impigliato nelle forme del poema epico tradizionale (come voleva il gusto aulico di Chateaubriand), nasce in Francia, coi Martiri, agl'inizi del secolo. Bulwer Lytton, cogli Ultimi giomi di Pompei, lo immette nel solco aperto da Walter Scott. Un ministro anglicano, Kingslcy, lo volge con la sua Ipazia a rappresentar<.: il fanatismo religioso. Vv'iseman e Newman ne fanno il romanzo di preti di cui stiamo per dire. Felix Dahn, con la Battaglia per Roma, lo allarga a urto e conAitto di razze. \1/alter Pater lo renanizza squisitamente nel suo Mario l'epicureo. Dall'Europa occidentale e centrale passa all'Europa orientale, e di là, alla fine del secolo, ci ritorna nell'opera cli due slavi: il polacco Sicnkiewicz, che nel popolarissimo Quo vadis? riprende la tradizione della Fabiola, cioè della finzione avventurosa a fine apologetico, ma con ben altra abilità narrativa e destrezza combinatoria; e il russo Mcrezkovskij, che nella Morte degli dì:i si ricollega allo storicismo rcnaniano di \1/alter Pater, non senza bravura, ma con un refe ak1uanto più grosso. Opere, queste, e altre se ne pòtrebbero ricordare, cli differcnt<.: valore artistico senza dubbio ma, tutte, insomma, di portata europea. Da noi, invece, il romanzo storico d'ambiente romano antico restò accantonato in provincia. Anche quello d'un uomo n'ingegno: La giovine.~za di Giulio Cesare dello scapigliato Giuseppe Rovani. Opera provinciale è senza dubbio il Tito Vezio cli Luigi Castcl!azzo, come provinciali sono lo Spartaco e gli altri romanzi storici cli Raffaello Giov:ignoli. Provincia e, qualche volta, collegio. Un candor collegiale hanno infatti i racconti della baronessa Antonietta Klitsche de la Gr.inge, dei quali più d'uno, tarda progenitura della Fabiola, d'argomento romano: Il 11avicellaio del Tevere, Ottavia . .. Ripensando a questi innocenti racconti, su cui da bambino mi son commosso e forse ho pianto, sento quasi il bisogno di chieder perdono alla memoria della buona signora, che ho conosciuto nella sua vecchiaia, per l'impassibilità con cui faccio il mio mestiere di storico. Ma è
RO~I.INZI Ili PRETI J I , .) proprio così. Tanto la cattolica e timorat3 Klitsche dc la Grange Lluanto il rivoluzionario.e anticlericale Giovagnoli cran venuti al romanzo storico t]Uamloormai il pubblico italiano di romanzi storici non voleva più saperne: ci eran venuti in ritardo perchè ritardataria era la loro cultura, fattasi ndla segregata Roma di Pio IX. Anche quella loro simpatia, che del resto non fu esclusiva, per gli argomenti romani antichi era piuttosto indizio di provincialismo che di europeismo: pcrchè - e a questo vokvo arri1·arccon la digressione che sto per chiudere - nei decenni in cui il rom;1nzostorico era stato una forma viva, gl'italiani :wcvan lasciato da parte la storia romana, sostanzialmente estranea ai loro interessi e sentimenti di cittadìni, e avevano invece ricercato i secoli di mezzo e il Cinquecento e il Seicento, proprio perchè lì, e non già in LJUc:Imondo classico con cui si gingillavano le accademie romanesche, sentivano impegnate le ,orti ,lclla patria italiana. La digressione, voi lo sentite, non tocca soltanto il D'Azeglio, il Grossi e il Guerrazzi, ma anche, e principalmente, colui che ndl'lwlia aduggiata dall'albagìa spagnola e spagnolcggiantc aveva scguìto col suo occhio misericordioso le umili vicende di due sposi contadini, di due poveri, simbolo e pegno d\m alto ideale: la famiglia cristiana. e italiana, nuova cd antica. Eppure, la commozione che sentivo bambino nel leggere i romanzi romani cklla baronessa Klitschc dc la Grange sento che sarebbe una viltà rinnegarla. Forse, rileggendoli, potrei risentirla anche oggi, se in quei candidi racconti c'è, come cn.:do ci sia, una duplice eco: quella dell'archeologia cristiana, rimessa in onore dal grande cristiano Dc Rossi, e t111clla,sia pure affievolita e impoverita, dei libri di preti di cui vi parlo: _T-abiola e Callista. Libri, roman;,;i di preti. Può un prete comporre romanzi ? Non dico sr gli sia lecito, ma se gli sia possibile, se ne abbia la capacità. La stori:t letteraria, che domani potrà testimoniare diversamente, a tutt'oggi testimonia che romanzi di preti, voglio dire bei' romanzi, non cc ne sono. Due esigenze, in quei libri, cercano di mettersi d'accordo senza riuscirvi o riuscendovi imperfettamente: qurlla del catechista, nel più alto senso della parola, che ha una sublime verità da farvi conoscere, e quella del vivo e caldo narratore, che vi fa vedere in atto uomini e cose. Sapete il discredito e l'oblio in cui son caduti i romanzi del padre Bresciani, un tempo popolarissimi per ragioni estrinseche, ma già al loro apparire scoperti nei loro difetti dai buoni intenditori: romanzi in cui neppure la parte catechistica è da salvare, pcrchè troppo compromessa dall'astio partigiano, ma, se mai, alcuni bei pezzi descrittivi, pezzi per, e non altro (e il salvataggio viene così a confermare la condanna), antologia. Quando il cardinale Wiseman immaginò il suo romanzo (e lo compose poi, come. una devota ricreazione, nei ritagli di tempo che il suo
PIETRO PAOLO TRO~IPEO infaticabik ministero gli lasciava, ,, nelle fermate dei viaggi, negli :ilbcrghi, nelle più svari:ite situazioni e in circostanze non sempre favoreYoli »), non potè certo non pensare ai celebrati e allora esemplari romanzi di Walter Scott. Ma l'idea a cui la Fabiola s'informa è quella stessa che aveva avuto Chateaubriand nei Martiri e eh·egli poi compromise in una rappresentazione sensualmente patetica se non addirittura dilettantesca: l'urto dei due mondi, il pagano e il cristiano, in un momento decisivo della storia, alla vigilia dell'avvento di Costantino. Il romanzo è intrecciato con una certa grossa abilità, come altri ro. manzi che hanno avuto fortuna presso il gran pubblico, come - per un esempio che non deve scandalizzare nessuno - li padrone delle ferriere di Georges Ohnet. Come nel Padrone delle ferriere, si muovono in que!- i'intreccio d:i cui il lettore è preso - e ne fummo tutti pn:si da fanciulli - personaggi che hanno ben poco di vivo e di umano, personaggi-fantocci. Ma poichè la Fabiola ci presenta l'urto di due princìpi, il bene e il male, i fantocci si dividono in due schiere: luminosi gli uni, tenebrosi gli altri. Si salvano in l]Ualchepunto, sotto il rispetto dell'arte, alcuni, se mai, dei personaggi tenebrosi. D'una certa efficacia è la rappresentazione del processo psicologico per cui il cristiano Torquato s'inducc a faFsidelatore dei suoi compagni di fede e l]Uella del rimorso che l'accompagna nella trista impresa e poi l'induce al pentimento. Parimenti non privo di forza è il ritratto dell'infame avventuriero che si nasconde sotto il nome di Fulvio, l:i dove l'odio generato in lui da una lunga serie di delusioni lo spinge a un atto di disperazione: l'assassinio di Fabiola, salvata poi dal sacrificio della fedele schiava Sira, che si scopre allora, melodrammaticamente, esser la sorella di lui, Miriam. In questi episodi, forse, la pratica dei peccatori, al tribunale della penitenza, venne in soccorso all'arte malsicura del romanziere. Ma fantocci, pii fantocci, son tutti più o meno i personaggi esemplari: il generoso Pancrazio, la intemerata Luc;na, l'intrepido Sebastiano, l'ingenua Cecilia, la celestiale Agnese. Anche qui noi non abbiamo bisogno cli rinnegar le lacrime che da fanciulli versammo copiose su queste pagine. Non l'arte del romanziere ci spremette dagli occhi « quelle antiche l:tcrime buone », ma quanto di sublime semplicità era passato nel romanzo dagli Atti dei Martiri, o dal Vangelo, o dal Catechismo. li torto dello scrittore sta nel non esser riuscito quasi mai a fondere la sublimità di quelle parole o di quei gesti con la realtà quotidiana che il romanzo deve rappresentare, con la naturalezza della vita domestica o cittadina, con la vicenda stessa del racconto. Raramente ci accade di riconoscere che lo scrittore ha trovato il tono giusto. Lo trova, a volte, in episodi marginali, direi quasi ornamentali, che non hanno col racconto un nesso necessario. Di Tarcisio, il fanciullo la-
ROMANZI Ili PRETI pidato per non aver voluto lasciar profanare il Viatico datogli in custodia, Wisemannon ci racconta punto per punto la storia, come fa di Pancrazio: lo coglie, come in un inno liturgico, nel momento supremo, quando è presceltoper il martirio; e il breve episodio si svolge con una castità di linea degna d'un Virgilio cristiano: « Una gravità, alla tenera età superiore, spirava dal verginale suo volto, mentre con fermo e celere passo attraversavale vie della città, pcnendo ogni sua cura cd attenzione nell'evitare non tanto i luoghi molto frequentati quanto i troppo deserti. Mentre si avvicinava alla porta di un ampio palazzo, la padrona di casa, ricca matrona senza figlioli, fu colpita dalla bellezza e soavità delle sue fattezze. Ed era invero una bella cosa vedere quel caro fanciullo camminare frettolosamente con le braccia incrociate sul petto». E tutto quel che segue. Il piccoloGioas, che Racine ha fatto parlare con semplicità così commoventenella sua Atalia, può dirsi il fratello di questo squisito Tarcisio che con la stessa commovente semplicità risponde 3)1edomande della matrona. Tarcisio, come Gioas, ha la psicologia del suo candore: una psicologia,e una poesia, che chiunque può rendere, elementare com'è, purch~ (kgno di sentirla. Uno dei più grandi poeti che ci siano mai stati, Racine, e un maldestro narratore, Wiseman, si sono incontrati in questa poesia dell'innocenza. Il Manzoni, poeta di Lucia, che seppe stilizzare con tanta dclicate7.za,in un cantuccio del suo romanzo, l'episodio tutto umano della madre di Cecilia, non avrebbe saputo stilizzar meglio di quel che abbia fatto Wiscman l'episodio tutto divino del martirio di Tarcisio. Ho lasciato a bella posta da parte le due figure centrali, quella che <là il titolo al libro, e la sua schiava Sira, che è poi la cristiana Miriam, la sua antagonista. Fabiola, la giovane patrizia romana orgogliosa e impetuosa sino alla violenza, ma schietta, integra, aperta al senso della giustizia, ci si presenta più come un tipo che come un carattere. Sembra talora sorriderci come una forma ideale, simbolo d'una Roma incorrotta che la virtL1e la giustizia predispongono a ricevere il messaggio cristiano. f:_ una di quelle figure simboliche, attraenti cd auguste, che certi nostri pittori - mettiamo un Domenichino o un Baciccia - pennelleggiarono sulle volte delle nostre chiese. Ma, per l'appunto, resta sospesa tra il simbolo e la vita: le è mancato quel soffio creatore che comunica il palpito d'una vita autonoma e piena. Di fronte a lei si pone la schiava cristiana in pieno possessodella sua verità, anche lei, in quanto creatura d'arte, sospesa tra il simbolo e la vita. E da un capo all'altro del libro, attraverso il grosso intreccio romanzesco e le sovrabbondanti didascalie archeologiche, un dialogo polemico s'impegna tra le due donne, sempre interrotto e sempre ripreso, che cessa soltanto quando la catechesi di Miriam, suggellata dal sacrifizio della vita,
116 PIETRO P.IOLO TRO~iPEO trionfa delle resistenze di Fabiola. In llucsto intermittente e perenne dialogo risiede la vera bellezza del libro: bellezza non di romanzo, ma per !"appunto di dialogo platonico: di un Platone cristiano che raggiunge san Francesco di Sales e Fénclon. E non era Platone anche lui un catechista ~ Rileggete in Fabiola tutto il capitolo XVI della prima parte, da ricollegare con alcuni passi del IV, e poi il V e soprattutto il XXXII della seconda parte. Sono i punti più importanti del dialogo di cui s'è detto. Ci si sente muovere in un'aria platonica, salesiana, fcncloniana. « Egli non è lontano da noi, - dice Miriam del proprio Dio rispondendo a una obiezione di Fabiola - chè anzi, come nella luce del sole, cosl nel vero sole della potenza, bontà e sapienza di Lui noi tutti siamo, ci moviamo e viviamo. Cosl possiamo rivolgnci a Lui, non come se fosse lontano, ma come veramente vicino e<l intorno e dentro di noi, pcrchè noi siamo in Lui cd Egli ci ode, non già con· l'orecchio materiale, ma perchè le nostre parole cadono immediatamente nel seno di Lui e i dcsidèri del cuor nostro vanno direttamente nei divini abissi della sua essenza,,. Pareva perciò a Fabiola che nello spirito della sua schiava fosse ,, un tipo segreto, ma infallibile, di verità, una chiave maestra con cui le disserrava i più reconditi problemi della scienza morale; un 'armonica corch rispondente all'unisono a tutto ciò che fosse retto e giusto, ma dissonante a quanto fosse falso o viziato o men che esatto. Fabiola avrebbe voluto conoscere qual era questo segreto, e le sembrava veramente che la schiava parlasse più per intuizione che per memoria di cose vedute o imparate"· Questo, al principio del racconto, quando la catechesi cli Miriam è appena incominciata. Pit1 tardi, quando ella ha dato il suo sangue per la vita della sua padrona -.:questa la ringrazia con effusione per cosl grande prova d'amore, la povera serva intuisce che il momento della suprema rivelazione è arrivato. « Mia dolce signora - dice -, ascol!atemi di grazia attentamente . .Non per invilire quel che voi degnate di apprezzare tanto, perchè vi farci dispiacere, ma per mostrarvi quanto noi siamo tuttavia lontani dalla cima dell'eroismo, permettetemi ch'io vi rechi un esempio simile, ma dove le parti sono tutte scambiate. Sia uno schiavo... ma il più brutale e sconoscente e ribelle verso il più dolce e generoso dei padroni, e sulla testa di questo schiavo penda il colpo non d'un assassino, ma d'un ministro della giusti1,ia. Che direste voi e con qual nome chiamereste la virtù di quel padrone, che per puro amore e a solo fine di redimere quello sciagurato, corresse a precipitarsi sotto il fendente della scure, anzi si ~ottoponesse a tutti i supplizi e obbrobri antecedenti, e nel suo testamento dichiarasse quello ~chiavo erede di tutti i suoi tesori, con ordine che sia trattato e riguard~to come un proprio fratello ? ». Alla risposta di Fabiola, che per un atto simile ci vorrebbe, se fosse possibile, la virtù di un Dio, Miriam risponde a sua volta con intensa commozione: « Dunque Ge.<IÌ Cri.<to, c/1t'
ROMANZI DI PRETI 117 fece per l'uomo tutto ciò, era veramente Dio». La catechesi della schiav:.t è così :il suo termine, e il nobile dialogo platonico può chiudersi con questo sillogismo sublime, da cui rimane nobilitato l'intreccio stesso del racconto. La Fabiola fu pubblicata nel 1854. Due anni dopo uscì la Callista cli Newman. Ma tra le due pubblicazioni non c'è probabilmente alcun rapporto, pnich~ Newman aveva incominci~.to il suo racconto fin dal 1848, scrivendoanche lui « i11 horis subsicivis " e non dando a questa sua attività cli narratore maggior importanza che a un geniale « otium ». I due romanzi, del resto, son differentissimi quanto all'intreccio, semplice in Callista mentre è avventuroso in Fabiola, e differentissimi quanto al modo d'interpretare e rappresentare gli avvenimenti storici. Se l'intent'l apologeticoporta Wiseman a mitologizzare la storia, proiettando sui personaggi cristiani un lume celeste e addensando su quelli pagani l'ombra più fosca,così che il conAitto fra l'Impero romano e la Chiesa ci appare quasi come una battaglia tra angioli e diavoli, Newman ha invece un così vigilesensostorico che non gli permette di attribuire ai cristiani dei primi secoliabitudini e sentimenti propri dei secoli più maturi, e ha d'altra parte tanto buon senso da riconoscer nei pagani, anche là c!ovesono strumenti di persecuzione,moti cli umanità e di pietà. « A quei tempi - osserva a certo punto a proposito cl'una richiesta cli matrimonio che sta per esser fatta - i cristiani avevano troppa semplicità e i pagani troppo poca vera delicatezzaperchè i~clugiasseronelle squisitezze dell'amore moderno, per lo meno quale lo vediamo nei romanzi: riteniamo perciò che l'uomo e la donna di cui parliamo saran giudicati o meschinamente prosaici o piuttosto semih:irbaridagli adepti di quella che si chi:ima la civiità europea ». E più in là, nel processo fatto all'eroina del :ibro convertita al cristianesimo ,. perciò ferma nel rifiuto di sacrificare al Genio dell'imperatore: « I giudici si guardarono tra loro come per dire: l?. la solita storia: qucll'ostinanatezza odios:1,incsHlicabile, che non vuol cedere nè alla ragione, nè al senso comune, nè aUa convenienza, nè :illa paura ». Questi giudici non sono i feroci persecutori che nella Fabiola han troppo spesso un cipiglio di tiranno da teatrino: noi riconosciamo in loro elci fratelli cli Don Abbondio, o piuttosto degli antenati, poichè di Don Abbondi chi sa quanti cc n'erano anche nell'antichità, come cc ne saranno, ahimè, fino alla con-. mmazione dei secoli. La persecuzione che serve cli sfondo al racconto cli Ntwman è quella promoss:1dall'imperatore Decio, e il romanziere ci fa assistere al contraccolpo che-essa ha nel!'Africa romana, e j)ropriamcntc nella cittadina numidica di Sicca Veneria. I cristiani che Newman ci presenta non sono punto idealizzati. La lunga pace succeduta alle ultime persecuzioni ne ha infiacchito la libra. In Africa come da per tutto, ma più ancora forse là
118 PIETRO PAOLO TROMPEO che altrove, la Ch;esa vive d'una vita grama e stenta. I pastori, pochi, dispersi, e non tutti zelanti. I battezzati, quasi tutti immemori del loro battesimo. Le acquiescenze, i compromessi, le complicità, han dato il frutto rhe dovevano, così che i costumi della maggior parte dei cristiani non differiscono gran che da quelli dei pagani. In questa generale rilassatezza è vissuto Agcllio, un giovane agricoltore cristiano tiepido nella pratica della sua religione, m:i che ha conservato tuttavia l'integrità dei costumi. Agellio ha una vecchia madre pagana, una fattucchiera che esercita i suoi atroci e blasfcmatòri incantesimi in una foresta non lontana da Sicca, e un fratello, Giuba, nemico anche lui del nome cristiano, ma senza malizia, perchè è in realtà un puro folle, di qua dal bene e dal male, cresciuto come un piccolo bruto alla ricerca d'una impossibile totale libertà. A volta a volta strumento inconscio di Dio e di Satana, si sente che Newman gli vuol bene, anche quando lo lascia in preda al demonio, e quando da ultimo è esorcizzato e muore nella pace dei santi, il lettore ha un sospiro di sodisfazio.nc, pur sapendo da un pezzo che il romanziere non gli poteva riservare altra fine. Newman stesso ci dice che il primo personaggio di cui abbozzò la storia, quando incominciò il suo romanzo, fu Giuba. È in realtà l'incarnazione d'un tipo caro alle letterature nordiche nell'età romantica: il puro figlio della natura, che vien su come una giovane pianta o un giovane animale, ignaro di che cosa sia peccato: il Giuba di Ncwman è strettamente imparentato col David Gellatley di Walter Scott, in Waverley, e col Donatello di Hawthorne, nel Fauno di marmo. Nel romanzo egli ha-uno zio paterno, Giocondo, un pagano che resta pagano, ma su cui Newman lascia cadere e scherzare non so che raggio di simpatia. Sembra, e in fondo è, un tradizionalista, fedele ai vecchi dèi, · al rni rnlto ritiene indissolubilmente legata la sorte della sua Roma, bcnchè poi, nei fumi del vino, quel tradizionalismo si scopra scetticismo materialistico, ed egli si riconosca senza infingimenti « Epirnri de grege porrns ». Ora Giocondo esercita a Sicca un suo lucroso comm<:rcio: ha una bottega in cui vende idoli e idoletti d'ogni genere, per tutti i gusti e per tutte le borse. Ma le più belle statuine, quelle di lusso, gliele plasma un:i giovane greca, pagana, che ha uno squisito senso d'arte: Callista. Se Fabiola è la virtù romana che il cristianesimo verrà a consacrare, Callista è la Grecia nel più bel fiore delle sue qualità: sentimento della bellezza, armonia, perspicacia d'ingegno, aggiustatezza e grazia d'eloquio, sete incsaustà di conoscenza. « Era giovane, alta, d'aspetto grazioso. Portava una tunica gialla di stoffa leggera che le scendeva fino ai piedi calzati di sandali. I fermagli che le si vedevano alle spalle, sotto il breve mantello che gliele ricopriva e che a un bisogno poteva esser avvolto intorno al capo, parevan fatti non
ROMANZI. DI !'RETI soloper trattenere il vestito, ma anche per servirle eia punte acute, da veri e propri stiletti, nel caso che avesse dovuto difendersi per qualche cattivo incontro; e benchè l'espressione del suo viso fosse ciel tutto femminea, qualcosain esso lasciava tuttavia intravedere che all'occasione ella avrebbe ben potuto adoperare quelle armi. Quel volto aveva un carnato chiaro e lineamenti regolari: pallido allora, qualunque fosse poi il suo abituale colore.La sua grazia veniva eia una calma nobile e maestosa. C'è la calma della pace e della gioia divina; c'è la calma di chi manca di cuore; c'è la calma della fredda disperazione; c'è la calma della morte. Ma tutt'altra era la calma che spirava dai lineamenti della straniera: era la calma della ~culturagreca .e rifletteva un'anima visitata dalle visioni del genio, ma padroneggiata, :mnonizzata da una volontà possente. Non c'era nessuna aria di timidezza ne' suoi modi, c'era tutt'al più una certa modestia. Il sok al tramonto passava attraverso la sua veste color d'ambra e l'illuminava,cosìche risplendeva come un fuoco, come se la giovinetta fosse ravvolta dal flammeum nuziale, pronta quella sera stessa ad essere assunta sposadal dio della luce"· Cosl ci appare Callista quando sta per iniziarsi il dialogo platonico cheanche qui, come già in Fabiola, è la vera essenza del libro. Ma Newmannon era soltanto un alto e intemerato catechista: era un poeta; e noi ci sentiremotra poco avvolgere dalle onde cli questa poesia. Il dialogo si svolge,a diverse riprese, tra Callista, Agcllio, e il s:rnto vescovo di Cartagine, che qui è sempre chiamato Cecilio, ma che è poi san Cipriano, e viveerrabondo e nascosto, instancabilmente cercando di riparare i danni fatti alla chiesa d'Africa dalla rilassatezza dei cristiani e dalle persecuzioni dei pagani. Ebbene, il Dio di Callista non è già lo splcnclicloApollo, ma, senza che ella lo sappia, l'Amore. Callista è Psiche, e come Psiche sospiraverso lo Sposo ignoto: Povera Psychc. io so dov'è l'amore. Oh! l'Amore t'aspetta oltre la morte. Di là, t'aspetta. Se tu passi il nero fiume sotterra, troverai l'Amore . ... chiudi gli occhi e dormi. Appena dcst:t, rivedrai !'Amore. Ma Callista non l'ha visto mai, l'Amore. Ne ha solo una vaga notizia, datale da una sua schiava cristiana, Chionc, mort:i eia tempo. Nulla ancora, tuttavia, la sospinge verso il cristianesimo, alle cui dottrine non mostra neppure interesse. Soltanto, sente che quel Dio misterioso, cli cui Chione le ha parlato arrossendo cli gioia, come una sposa parla dello sposo, non ha nulla a che fare col Dio astratto e impersonale dei filosofi greci. Ed ecco che nell'imminenza della persecuzione il Don Abbondio del
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