NOTE DI CRONACA 93 paesaggi. E De Chirico potrebbe cambiar chi sa quante volte il suo stile ma non cesserà mai di farci rimpiangere il tempo delle sue ciuà italiane. Rappresentativo anche lui di quel nostro gusto teorico e sperimentale ad un tempo che l'ha tentato a dipingere contemplandosi e a risolvere l'opera sua in parole: non filosofiche, naturalmente, m:i, come s'accennava, sul « saper dipingere» (che è voc:ibolario, per l'appunto. e non linguaggio). Ma forse questo è buon segno: e indica il bisogno di intendersi e di forsi intendere; reazione, o tavola di salvataggio, all'abuso della malintesa o mal adoperata filosofia o, comunque, al mal vezzo del parlar difficile (e del dipingere astruso). Bisogna riconoscere, invero, che questi mali già si dimostrano in via di guarigione, non foss'altro per il rimedio sovrano del buon senso che ha ormai smontato molte «macchine»; per De Pisis, Carrà e De Chirico è già spuntato il giorno in cui si ammirano al di sopra degli spunti polemici da loro stessi suscitati o voluti. Grandi pittori, non c'è dubbio; ma su tutti naviga - e non si dica che il suo mare è chiuso, pcrchè l'arte non ha confini, specialmente quando sembra porseli nel rigore d'uno stile - Morandi. Dal « saper dipingere» possono nascere pittori veri; Donghi, pe_r esempio, che non teorizza, che è tutto lì, in quel suo raccontarsi le storie per minuto, ingenuamente; e possono morire, anche, alcuni che pur sarebbero nati pittori: penso a Leonor Fini ancora una volta, vittima preoccupata dcli'« intelligente", cioè troppo fuori dall'immediatezza dell'arte; chiusa·, quindi, nell'illusoria muraglia di specchi deformanti che è, appunto, l'intelligenza innamorata di se stessa. Ma artisti siffatti non svno che aneddoti. Da Morandi non nasce niente che non sia l'arte di Morandi; che, se si volesse definire, avrebbe bisogno soltanto di termini come tono, colore, spazio, cioè dei termini che s'usano per tutti gli artisti sommi, d'ogni tempo e d'ogni luogo. Ci sarebbe, soltanto, da studiarne la biografia, ricchissima, senza soste, documentatissima (parlo, naturalmente, di biografia artistica, cioè della personalità). Abbiamo così ricordato, con questi nomi, non tanto le mostre che li hanno ospitati, quanto il valore, non mutato, di quesri nomi stessi, che sono ormai al di là della cronaca. Ci interessa di più, quindi, per lo scopo i'l'mediato di queste note, parlare, per intenderci, di coloro che sono in cammino; e si tratta quasi sempre d'un cammino ascensionale. Tamburi, per esempio (mostra della Margherita, novembre '44), è intento a superare quel tanto d'improvvisato e d'illustrativo che anni fa lo faceva scivolare verso la moda, e ora trova schemi compositivi solidi al di sopra della suggestione della «veduta». Gentilini (anche alla Margherita, febbraio-marzo '45) trascinato dalla curiosità intuitiva, affronta il «grottesco» come Luigi Chiarelli, nell'altro dopoguerra, col suo teatro, cioè con un'e~altazione mediat1 della realtà. Aspirazioni alla poesia, dunque, ma con prepotenti legami all'esperienza; forse in omaggio alrauspicato contatto fra arte e vita, che è il problema più urgente per gli artisti d·oggi (ma non è un problema per l'arte). E così Castello, con la sua troppo chiara intuizione d'essere il poeta di Capri. Meno preoccupato, e però più puro, Bini, nella sua scultura; che mi sembra il più spontaneamente fedele a certa tradizione classicistica, tutta fiorentina, propria di chi trova nel nostalgico amore per il 400 il metro della propria vitalità. Aspirazione alla chiarezza, dunque, attraverso un controllo culturale; come, per diversa na, avviene lodevolmente a Sante Monachesi, semplificatore delle ultime mode pittoriche. Linguaggio sapiente ma vivo, specialmente quello cli Monachesi, e profondo. E si giustifica, pertanto, il successo della Mostra Bini alla Margherita (novembre '45) e clelraltra di Monachesi alla Prora degli stessi giorni o quasi.
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