Quaderni di Roma - anno I - n. 1 - gennaio 1947

NOTE DI CRONACA Ma il vero vincitore morale del premio Viareggio è stato Saba: Saba riscoperto ora, dopo la pubblicazione dell'intero Canzoniere (ed. Einaudi), quando il suo nome sembrava già legato al passato. E non tanto nelle ultime cose, quanto nelle più antiche, in Trieste e una donna (1910-1912), nel Cuor morituro (1925-1930),fino a Parole (1934). Ma nella valutazione di Saba si dovrà tener conto anche di quelle Scorciatoie e rat· contini (ed. Mondadori, 1946) passate quasi inosservate e che ci sembrano riprendere e sviluppare le sue doti migliori, sopratutto la facoltà di spostare le sue parole in un'aura d'incantesimo, di creare con esse, in termini autobiografici, un discorso poetico: la sua storia di uomo che passa attraverso le cose, bagnandosi alla loro luce. D'ora in avanti, nella topografia della sua opera, accanto a Trieste, alle sue vie, al suo colore quotidiano - che è divenuto un po' il mito di Saba - troverà posto la Roma dell'occupazione alleata, nei primi tempi, quel senso di vacanza che fu in tutti, corso da ombre improvvise che c~ilavano sul cuore e si ritrovano in lui, nei suoi cont:itu con certe situazioni equivoche, coi mestieri poco chiari, con le trattorie di quart'ordinc in fondo a strade vecchie di Roma. Un'avventura levantina dentro le mura della città più civile del mondo: senza nessuna caduta crepuscolare, con u·na crudezza fra sbarazzina e amara, maligna e festosa. Sembra che Saba sorrida, col sorriso aspro di una razza che porta su di sè tanto dolore e tanta saggezza. In fondo alle Scorciatoie c'è la poesia tutta vista e tatto di A mia moglie, l'innocenza così frequcntcm~ntc gvduta e sofferta del C,wzo11iere, alla quale ogni volta Saba ritorna come il bambino spaventato si rifugia nelle braccia materne. Freud, Nietzsche possono servire ancora come indicazione di una sensibilità, di certi amori letterari; ma poi questa prosa nuova di Saba così lucida, così bruciata ... """ Molte volte oziosamente ci siamo chiesti che cosa sarebbe stato di Renst0 Serra, se fos,e sopravvissµto, quali vie avrebbe preso il suo ingegno. Fu sempre presente in lui qualcosa al di là del puro fatto letterario, una curiosità, o carica d'interessi, che ci .autorizza a considerarlo tanto più ricco e vigile lettore di quanto non risulti dal ritratto fondamentale, ma in parte favoloso, che ci ha dato De Robertis. La « religione delle lettere », come si è detto giustamente, è l'abito più vero, almeno il più facilmente individuabile di Serra, ma deve intendersi piuttosto come rifugio e consolazione che non come amore fine a se stesso. Cecchi propose una volta per J.acques Rivière esprit de fi11esse e crediamo sia l'attribuzione più propria che possa addirsi alla sua fisionomia di ricercatore di verità, che per naturale tendenza (favorita dal suo carduccianesimo) e per la solitudine della sua vita si orientò verso le lettere, portandovi quell'estro romantico, quell'abbandono tra svagato e sottile - la sua civetteria ? -, che han fatto di lui il prodotto più originale della critica italiana del Novecento. Per questo va accettato l'articolo di Alfredo Gargiulo « Socialità di Renato Serra» (Nuova Antologia, luglio); accettato specialmente nelle riAessioni sull'affettività dell'Epistolario (il più bello, dopo quello di Leopardi), sull'« avidità di umani acquisti » da cui Serra fu spinto, in ogni lettura, alla scoperta della personalità umano dei suoi poeti. Basti pensare ai « ritratti » del Pascoli, del Carducci e a quel « Rin• graziamento a una ballata di Paul Fort », dove raggiunse la sua più alta ambizione letteraria, il totale assorbimento d'una lirica, rivissuta, trasformata in un suo modo di essere, cioè di dire. Non ci sembra invece che si possa parlare dcli'« Esame Ji coscienza» nei termini posti da Gargiulo: « lo scrittore s"immedesima con gli uomini e con la stessa terra ». C'è nell'Esame un 'amarezza profonda, che nasce dall'accettazione d'un fotto enorme, disumano come la guerra: e se vi trova i suoi accenti una

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