Il piccolo Hans - anno XX - n. 79/80 - aut./inv. 1993-1994

reintegrata, se non ostassero due considerazioni. Innanzitutto, può apparire alquanto strano che il copista, per quanto ignorante, si sia lasciato sfuggire un errore simile in una composizione così tanto legata, che la perdita di uno soltanto dei suoi elementi balza immediatamente agli occhi. D'altro canto va anche detto, ed è argomento a mio parere definitivo, che dopo Petrarca e prima del petrarchismo, il congedo della sestina non è sempre il luogo in cui tornano tutt'e sei le parole-rima (al punto che vi sono sestine, come già detto, che presentano addirittura le sole tre parole-rima di fine verso). Una tale parziale innovazione, dunque, in un autore che intrattiene con la forma, un rapporto sicuramente più «libero» di quello che intratteranno i poeti delle generazioni successive, non può di certo apparire scandalosa, soprattutto se si ricorda la stessa «predilezione del prototipo e dell'esemplare unico» che lo stesso Gorni attribuisce all'officina albertiana. Un'ulteriore correzione potrebbe essere proposta al v. 36, oggettivamente un po' stiracchiato, ripristinando anche in questo caso la lezione del codice (prestarmi e non prestami), dando un tono interrogativo e valore verbale a poi («... E, Amore, / aimè, poi quivi non prestarmi un riso?»). In questo caso la stanza, fra l'altro, chiuderebbe meglio il discorso principiato nella precedente: lì era detto che ogni sdegno veniva dissolto dal dolce riso della donna; qui, che il tormento viene dichiarato maggior a causa del dolore irrisarcibile e dello sdegno altrui, come può Amore non soccorrere il poeta con un riso? 13 Così viene presentata da Gorni a p. 35 dell'opera citata. 14 Quella stessa paradossalità che, con una simile immagine di rimbalzi antitetici, Alberti dichiarava nel Defunctus essere propria dell'uomo che «semper habet (...) ut speret, aut metuat, audeat aut reformidet, aut moereat, aut exultet, aut irascatur, aut frigescat et languat, rursus invideat, aut contemnat, aut oderit, aut reliquis curis istiusmodi conficiatur» («Sempre spera oppure teme, osa oppure fugge, o si addolora, o esulta, o si adira, o si raffredda e langue, e ancora invidia, o disprezza, o odia oppure è oppresso da simili affanni»); al punto tale che nulla in realtà egli può compiere che non finisca con l'apparire frustra et inecte factum (Alberti L.B., Opera inedita et pauca separatim impressa, Firenze, 1890, p. 179). 15 lvi, p. 18: «Evitate questo male, studiosi, evitate; e reputate essere interamente pestifere quelle cose da cui scaturisca anche la più piccola scintilla d'amore. Fuggite le riunioni degli amanti e la consuetudine dei voluttuosi; fuggite i giochi e le scene d'amore, e irridete le inezie e compiangete le miserie degli amanti». 16 Per cui si veda Weinrich H., Tempus. La funzione dei tempi nel testo, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 56. 17 Per i problemi connessi alla «prospettiva linguistica» nelle sestine di Petrarca, rimando al mio La furia della sintassi, cit., pp. 254-258. 281

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