A questo punto eravamo pronti per uscire. Io ho ringraziato tutti da parte del dipartimento (mi hanno insegnato così) e tra i «anche questa è finita» e i «chissà dove la portano» ho guidato in silenzio una specie di processione naturale dileguatasi peraltro prima ancora di arrivare in strada, dove ci aspettava lo skai dei sedili, infuocato e impossibile per chiunque. La professoressa nell'impatto con la luce ha sbloccato la posizione delle braccia; non che le abbia abbandonate lungo i fianchi: le ha semplicemente distolte dall'indicazione di un miraggio, quel punto alto e invisibile che con il sole si è vanificato. Certo, "le braccia rimanevano di pietra (si faceva imminente un'altra dose e la mia paura si era nuovamente riacutizzata) ma le loro cavità ora stavano assorbendo dalla testa, come per caduta, la coscienza di un dolore, era come se un fluido intelligente fosse entrato nelle loro vene per informarle della presenza del male e della sua concreta localizzazione. Anche il dolore della professoressa ha un posto e in quel preciso istante lei deve averlo riscoperto perché le sue mani da quel momento non si sono più staccate dalla testa: l'hanno battuta a palme aperte, simulando quasi, senza vigore, l'hanno accarezzata con il dorso, a tratti, lungo la fronte, pacatamente e dolcemente insieme, hanno tentato di tenerla ferma fin dove era possibile, ma non l'hanno più lasciata senza le loro prese, i loro segni, la mimica un po' grottesca del male. -Prova a dirle qualcosa, perché non ne esce, fagliene un'altra ti prego, ho voglia di sentirla lamentarsi, non può stare lì a vibrare e basta, fra poco scoppia - mi ha detto l'autista guardandola nello specchietto, e subito dopo ha continuato: -e poi, con quelle mani a rallentatore, sembra una bambina, è ridicola - si è interrotto ancora un attimo (nella pausa è riemerso quel rumore di motorino elettrico) -è triste che faccia ridere, no? -Tu pensa a guidare. -Dille qualcosa, falla uscire in qualche modo. 221
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