in terza persona. Io salivo con passo svelto pensando a Li che avevo lasciato poco prima con già i dolori, domani avrei trovato Giulio Garibaldi (lo avremmo chiamato così) respirando l'aria fresca come una casa buona da godere fino in fondo. Non era questa la vita? Sentivo la mia giovinezza e la vita davanti tutta da vivere. Non c'era da preoccuparsi di nulla. Nei giorni della Liberazione Milano appariva diversa. Il traffico non era intenso come lo sarebbe diventato, la città più vuota per gli sfondamenti della guerra, la mancanza di nuove costruzioni. Anche il cielo sembrava più alto, meno stretto fra le case, più arioso. Abitavo con Li e il bambino in un appartamentino al piano rialzato di viale Regina Giovanna. Non avevo più visto un mio quadro da prima della Resistenza. Davanti all'Arlecchina, dipinta al Forte nell'estate del quarantuno, ebbi una forte impressione. Ahimè di sconforto, come se una pietra mi fosse caduta addosso. La stanza era semibuia. Il quadro era lì; la Renza del Forte magra come un gatto, l'occhio che pareva guercio, le gambe secche, seduta sulla panchetta malferma, la mano con quattro dita, la brocca bianca smaltata da un lato. Era questa la pittura? Questo il passo compiuto per vivere in altro modo? Le amicizie di Corrente, il rifiuto della carriera paterna, l'avventura artistica? Quale relazione fra questa povera figura incenerita e il grande sconquasso del mondo? Già, un mondo più giusto. I miei ricordi si perdevano nell'agio e in un senso di paura. Il mondo era ingiusto, la gente infelice... Decisi di stare con gli infelici. Comunista. Come potevo fare l'ingegnere nelle fabbriche di mio padre? Sarò poeta, pittore, con chi è dall'altra parte. Ora tutto crollava alla prova della guerra. L'Arlecchina, simbolo del mio travaglio, non reggeva di fronte alla lotta di classe, al mito del collettivo. In questi mesi mi ero dato anima e corpo al partito per diventare un uomo diverso, un rivoluzionario di pro229
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