dali di cartone in Bretagna o a Barbizon. Ho fatto anche studi di osteologia, nelle gallerie di storia naturale. Mi è bastato confrontarli un poco, al museo, per avere l'idea della tessitura di relazioni che tutti gli esseri costituiscono. Ben presto mi venne l'idea di crearne io, secondo il mio estro. Si trattava solo di atrofizzare, e ridurre, o, invece, di sviluppare, a mio modo, delle parti dell'essere. Non vorrei pronunciare la parola «mostri»: ricorro, piuttosto, a quelle parole che la fantasia umana ha disposto nella gamma dell'osteologia, mantenendo come criterio una sensibilità quasi cristiana. ... Ne ho fatti tanti, allora, con grande facilità. Verso il 1875, tutto capitava sotto la mia matita, sotto il mio carboncino - quella polvere volatile, impalpabile, che scappa sotto la mano. Fu allora che questa maniera, visto che era quella con la quale meglio m'esprimevo, rimase la mia. Questo materiale qualsiasi, che non possiede alcuna bellezza in sé, facilitava molto le mie ricerche del chiaroscuro e dell'invisibile. È un materiale inviso agli artisti, perciò trascurato. Bisogna che lo dica: il carboncino non consente di essere piacevoli; è grave, invece. Quel che non suggerisce niente allo spirito potrebbe non valer niente, se non vale qualcosa una volta fatto a carbone. Sta sul bordo di qualcosa di sgradevole e laido; è- le dico- il materiale che tollera meno di tutti la negligenza confidenziale: da esso, di per sé, non si ricava niente. Ha bisogno di tenuta, richiede, più d'ogni altro, d'essere elevato a dignità d'espressione. Dall'artista che l'impiega, esso esige - nell'attimo felice nel quale l'agente passionale produce un'uguale misura di chiaroveggenza e di logica- un tatto, un gusto minuzioso sempre desto e presente. Due cose, in realtà, sono consustanziali nell'artista: la sua moralità e l'istinto; queste sono le fonti, enigmatiche, ahimè, e dolorose, dell'originalità, vale a dire della verità personale. 224
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