Il piccolo Hans - anno XIX - n. 73 - primavera 1992

Il . piccolo Hans rivista di analisi materialistica 73 _,primavera 1992 C!,audio Parmiggiani 5 Guardare un quadro a occhi chiusi, guardare tutto a occhi chiusi Jacques Derrida 20 Memorie di ciechi Virginia Pinzi Ghisi 31 Il quadro e il rombo Paul Klee e il destino pittorico del soggetto tra trauma ·� figurazione Ermanno Krumm 69 Stevens e la visibilità dell'aria Wal/,ace Stevens 88 Poesie (con una nota di Nadia Fusini) A/,an Bass 109 Feticismo, realtà e ''The Snow Man'' Baldo Meo 148 Wallace Stevens tardo moderno ]osé Gil 159 L'atmosfera: Pessoa e Warhol Maria Antonietta 179 Montale 1927 e la critica Grignani non osservante (con dodici lettere inedite di Montale) Valerio Magrelli 213 Un'onda di traduzioni: Paul Valéry Roger Dragonetti 227 "Naturale" e "sincerità" nell'''Institutio oratoria'' di Quintiliano

I l picco l o Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola a questo numero hanno collaborato: Alan Bass, Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Jacques Derrida, Roger Dragonetti, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Nadia Fusini, José Gil, Milli Graffi, Giuliano Gramigna, Maria Antonietta Grignani, Ermanno Krumm, Nicoletta Lumina, Valerio Magrelli, Baldo Meo, Claudio Parmiggiani, Giovanni Scibilia, Mario Spinella, Italo Viola redazione: Via Borgospesso 8, 20121 Milano, tel. (02) 794515 editore: Moretti & Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67 24100 Bergamo, tel. (035) 239104 abbonamento annuo 1992 (4 fascicoli): lire 60.000, estero lire 75.000, e.e. postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti & Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro fotocomposizione e stampa: Grafita!, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

Guardare un quadro a occhi chiusi, guardare tutto a occhi chiusi

Penso alla luce e all'ombra come a una mente, una duplice mente solare e lunare, con una sola anima, come al simbolo permanente di tutto il mio lavoro. L'immagine dell'ombra è stata una presenza frequente, forse una delle più insistenti nel mio lavoro, meno percettibile nelle opere, più esplicita nei disegni dove appaiono uomini come ombre o più ombre che uomini. La sua presenza è come un dubbio suggerito all'occhio di chi guarda, il senso di tensione, di immanenza, di tragedia latente essenziale nel lavoro. All'ombra è legato il senso della nascita e della morte ed è il luogo occulto in cui immagini e idee prendono forma. L'ombra è la prima immagine speculare dell'uomo che significa all'uomo il suo stato di tutto e di nulla. L'ombra è la metafora della fine, è il nulla e il nulla è l'unica stella. Non c'è una sola immagine del mondo, una sola immagine della mente che non sia letteraria. Ad esem�io l' Autoritratto come ombra per me è un'indicazione della negazione stessa dell'immagine o in ogni caso un'opera che non lascia spazio ad alcuna letterarietà dell'immagine, non rinvia e non deriva da alcun significato. Essa è, come del resto qualsiasi altra opera, l'immagine che è, un'ombra. D'altra parte è pensabile un'ombra che non sia letteraria? La letterarietà è l'ombra stessa delle cose e l'ombra è qualcosa di molto vicino all'anima delle cose. Ho iniziato e continuato per diversi anni a disegnare e dipingere alla luce di una lampada a petrolio e forse per questo gran parte delle immagini della mia memoria hanno identificato nella notte la loro provenienza. Non ho niente altro da aggiungere sugli inizi del mio lavoro. Erano inizi allora, sono inizi tuttora; non è cambiato nulla, niente da ricordare, nulla da sottolineare, nessuna biografia straordinaria. Tutto di dentro è acuto, appassionato, vissuto con la stessa speranza e senza alcuna 6

speranza, con la stessa fede e senza alcuna fede. Tutto qui. Spesso per stendere il colore sugli oggetti o sui fogli non uso strumenti, uso le mani. Lavoro con le mani nel colore o nei pigmenti, direttamente sul foglio, come dita sopra una tastiera, per l'esigenza che c'è di un rapporto diretto, immediato, con l'immagine. Spargere il colore con le mani è come creare uno spazio sacro sul quale agire, ma anche credo un gesto radicale, il segno di una urgenza, l'urgenza di un contatto fisico con l'idea. Questo appunto perché non si tratta di dipingere un quadro ma di compiere un rito, esattamente come in un'operazione di magia. Una dimensione, quella del magico, che sembra completamente dimenticata e di cui si avverte una esigenza vitale. Non c'è nessuna separazione tra realtà e irrealtà, tra razionalità e irrazionalità, tra logico e illogico, tra mondo fisico e mondo met�fisico. L'uno esiste in ragione dell'altro e il pensiero senza tener conto di alcuna distinzione e di alcun ammaestramento affonda le sue radici ovunque liberamente: tanto nella ragione quanto nell'assurdo, nel reale quanto nel simbolico, nella storia quanto nel sogno, nel visibile quanto nell'incomprensibile, nell'immaginazione e nella memoria, nella solitudine e nella disperazione, nell'amore e nell'esaltazione. So che la parola sogno è una parola difficile da pronunciare, anzi per alcuni pericolosa, quasi da bandire, come se il mondo dovesse e potesse smettere di sognare, come se l'universo stesso non fosse il sogno di una mente incomprensibile. Ma che cosa sono le opere se non dei sogni? Quello che vedo in sogno lo ritengo una quintessenza della forma. Un colore, una luce, uno sguardo, quello che vediamo 7

e sentiamo passando si consuma dentro le pupille come una tragedia silenziosa, interminabile, dolorosa, inaccettabile come il pensiero di un sole che muore o una qualsiasi morte in noi. L'attesa di un segno assoluto che di tanto in tanto ci illumini o l'attesa di nulla, resistere, in vista di niente o di nessuna salvezza, pensando che l'arte sia più forte della realtà, unicamente per una fede in un sogno. Lo spazio circostante l'opera è una parte fisica dell'opera, non uno spazio all'interno del qUale si colloca l'opera, ma spazio come elemento costitutivo del lavoro. Per questo il lavoro vive al massimo di sé solo in un determinato spazio, perché un determinato spàzio è un elemento ideale e non intercambiabile. L'opera nei suoi trasferimenti dovrebbe portare con sé lo spazio stesso in cui si trova. Un lavoro visto nello studio non è più lo stesso quando è esposto in un museo. Lo spazio lega l'opera al mondo, senza questo spazio l'opera è orfana. In un luogo pubblico l'opera è sola, come se fosse frutto di un pensiero collettivo più che di un pensiero individuale; l'opera è una creatura vivente. Nel contatto con nuovi spazi il lavoro si carica di interrogativi, si altera, si trasforma come fa il tempo sul volto di un uomo. Lo spazio è innanzitutto una concentrazione di energia, un campo di energia, io lo chiamo cosl, cioè tutto quello che l'opera riesce a irradiare di sé, tutta la tensione che l'opera riesce a suggerire allo spazio e che lo spazio fa sentire a chi guarda, lo spazio come estensione fisica dell'opera, quasi come un tramite magico tra l'oggetto e l'osservatore. Disegnare è come seminare, seminare sogni. Disegnare è come trattenere nella mano dei segni carichi di potere magico e spargerli d'un tratto a caso su un foglio bianco 8

e guardare come questi si sono assestati, che cosa suggeriscono, che cosa ricordano, che cosa evocano. Il disegno è un rito di evocazione. A parte il disegno come progetto non so mai prima come sarà il disegno che ho intenzione di fare. La mano si muove sul foglio come a cercare qualcosa nella profondità del bianco, come a volerne estrarre delle forme. La mente è come la mano, ignora quello che sta per accadere, poi è sufficiente un segno, una pressione maggiore, un gesto, uno scarto improvviso, qualcosa di latente che si risveglia e improvvisamente tutto è chiaro, tutto è logico. Tutto quello che fino a un attimo prima era oscuro appare assolutamente naturale, con tutta la verità dell'immediatezza. Un disegno è la quintessenza di un pensiero, di un sentimento, la sua genesi è indecifrabile, nasce come geroglifico per diventare immagine. Con un'opera mi sento responsabile di fronte agli altri, disegnando mi sento responsabile unicamente verso me stesso. L'opera ha una forma e un destino pubblico, il disegno ha una forma privata, l'opera possiede un abito, il disegno è nudo. Per questo la forma apparente del disegno sembra a volte in opposizione: figura da un lato, astrazione dall'altro. Ma quando si comprende che una tela rossa è ad esempio il fuoco e non solo un monocromo astratto allora si può vedere una tela totalmente rossa come figura e non come astrazione e allo stesso modo un disegno. Non per quello che l'occhio guarda ma per quello che la mente vede. Il lavoro stesso è una domanda e non una risposta; il lavoro nasce in un modo complesso, nasce come un fuoco, nasce dall'ispirazione e solo dall'ispirazione, anche se questa non è altro che un primo gradino; il problema è sublimarla questa ispirazione, purificarla. Giardino notturno e Versunkenheit li ho pensati rispettivamente come una scultura d'ombra e una pittura di luce; 9

il bianco e la luce sono associati al respiro, al respiro del mondo, il nero è associato alla testa. La testa è un sole nero, il nero è luce nera. -In Giardino notturno il nero è la mente, la luce è l'espansione, la dilatazione. La testa nera nel bianco assoluto di luce è un corpo che si contrae e si dilata, la testa nrra è il cuore pulsante dello spazio, un nero intenso generato in fondo al labirinto di se stessi, lo spazio come respiro, l'idea come illimite, il nero come fulcro di energia in continua espansione, il bianco e la luce come dilatazione mentale, irradiazione all'infinito, tale da far coincidere l'idea con l'orizzonte, come rappresentazione visiva del pensiero, una nuvola bianca che nasce silenziosa ali'orizzonte e lentamente e inesorabilmente si impadronisce del cielo, instaura una nuova luce, muta il mondo. L'idea ha una forma sferica, lo spazio è senza punti cardinali, i punti cardinali non esistono, la ragione non è altro che una concentrazione di irrazionale. La testa nera è come una sfinge nel deserto, sola e assoluta; un punto nero in un infinito di luce, punto nero come sorgente e come orizzonte, sole nero. Versunkenheit è un grande monocromo, bianco il pavimento, bianche le pareti, bianco il soffitto, bianche le tele che volano, che irradiano, come forme angeliche. Tutto quello che si pensa è bianco, tutte le cose sono sospese, tutto è fluttuante, manca l'alto e il basso ed è così perché l'alto e il basso non esistono, sono la stessa cosa, filtrati dalla luce, levitanti; un luogo inondato di luce, non di neon né di lampade ma di luce, di vera luce. È un lavoro fatto di luce, l'opera è la luce, l'immagine è la luce, l'unica materia è la luce. L'autoritratto di Klee riprodotto nello specchio non è per riferirsi direttamente a Klee, non c'entra niente Klee, questo autoritratto non è nient'altro che un autoritratto ideale, una maschera trovata, come la maschera di Atreo, una maschera che indossata permetta di fare un lungo viaggio. Questo è un lavoro pensato guardando un muro bianco. 10

Le Delocazioni sono state per me lavori veramente iconoclasti. Avevo mostrato sulle pareti della galleria le impronte, le sagome delle tele che avevo rimosso, presentando la loro assenza, ombre di polvere e di fumo. A Venezia nel '71 avevo esposto quattro Delocazioni, impronte di tele riportate su tela nei colori di fondo rosa, bianco, azzurro, giallo ocra, e le avevo esposte su quattro pareti che avevo dipinto nei colori corrispondenti. Avevo anche fatto altri lavori incollando tele sulle tele stesse, tele bianche su tele bianche. Tela su tela; mi sembrava l'unica immagine possibile. In seguito, nel '75, avevo esposto una serie di tele bianche in piena luce in modo che fosse la luce stessa a impregnarsi sulle tele, come a dipingerle; le avevo immaginate come opere del giorno. Altrettante tele nere erano invece esposte in ombra, un'ombra densa, pensate come opere della notte. Mi piaceva l'idea che fosse la luce del giorno a dipingere le tele bianche e l'ombra della notte a dipingere le tele nere. Delocazione (1970) era un lavoro nato dall'osservazione di uno spazio, il luogo di presentazione di un'opera, un ambiente trovato all'interno di un museo, e questo ambiente non era nient'altro che un luogo abbandonato, dove le uniche presenze erano le impronte degli oggetti che avevo rimosso. Un ambiente di ombre realizzate con polvere e fumo, ombre di tele rimosse dalle pareti, ambienti completamente spogli dove l'unica presenza era l'assenza, ectoplasmi di immagini scomparse, ombre di ombre, come veder dietro un velo un'altra realtà velata e dietro quest'altra realtà velata un'altra ancora e altri veli e così via perdendosi all'infinito, cercando un'immagine e attraverso questa immagine il desiderio di intravedere se stessi. Avevo presentato questo ambiente di ombre come opera; un luogo dell'assenza come luogo dell'anima. 11

Lo studio è come la stanza per l'oppiomane, gli oggetti cambiano dimensione, l'udito, la vista e gli altri sensi si confondono, d'un tratto sembra di essere sdraiati sul soffitto. Le immagini evocate sono fluttuanti, amnios e oceano. Nel passato c'è tutto il nostro futuro, ma tutto il legame con il passato dell'arte che si è creduto di intravedere in certi miei lavori non è mai esistito. Non c'è mai stata nessuna preoccupazione in questo senso per la storia o per il passato che del resto non chiamo passato ma memoria, una profondità questa che, nel suo procedere oltre, solo marginalmente tiene conto di filologia e storia. Un'immagine poetica non è già di per sé, nella sua purezza, una sublimazione della forma e un deposito della bellezza storica? Non è possibile che prima di stabilire un'osservazione sensibile con una statua occorra chiederle una specie di carta d'identità. Parlo della statua non a caso perché so benissimo che si tratta proprio di questa facile equivalenza: statua uguale a passato. Un volto di una statua dipinto di nero, avvolto nel nero, è un dialogo forse con l'ombra e con il tempo ma non necessariamente con il tempo al quale la statua appartiene. Una luce sul volto di una statua non parla solo della statua ma della luce. Un volto, una voce, il mistero di un segno trovato per strada, un frammento, una testa di una statua antica appartengono tutti alla medesima condizione di resti alla deriva, reliquie, brandelli di anima, ed è appunto questa loro condizione e non la loro appartenenza a un determinato tempo che mi importa. Del resto non comprendo nemmeno perché si chieda quanta importanza rivesta il passato nel lavoro di un artista, perché è vero che la presenza del passato è qualcosa che certamente è radicata forte in me, al punto che a volte sento dentro quasi più forte l'attrazione e il piacere del ricordo che il piacere stesso di vivere, ma è anche ovvio che il passato faccia parte 12

naturalmente della struttura mentale e sensibile di ognuno di noi, cosl come è altrettanto naturale la presenza e la memoria dell'antico per un italiano. Noi siamo il passato, siamo noi i veri antichi. Il passato non è altro che il presente vivente. Passato, presente e futuro vivono in una sola dimensione dove il tempo non esiste. Il senso del lavoro è rivolto a un'idea di realtà che ha le sue radici nell'ignoto. Il senso stesso del pensiero appartiene a una dimensione che ci è sconosciuta e nel pensiero il tempo è sconfitto. Raramente uso gli strumenti tradizionali della pittura, non faccio quadri. Ho come un senso di rifiuto all'idea di dipingere un quadro, c'è come un senso di inutilità, di inadeguatezza, quasi come un tradimento. Penso alla pittura attraverso altre vie. Non mi sono mai posto il problema dell'abbandono o del ritorno alla pittura, mi considero un pittore che non fa della pittura. Nessuna descrizione, dipingere lasciando unicamente l'impronta fuggevole della propria mano, il gesto più elementare, imprimere la propria mano sulla tela, nient'altro. Toccare la superficie notturna della tela e unicamente con questo gesto realizzare un mondo. Non mi soffermo su una forma da ripetere e ripetere in mille minime varianti come in un lavoro di sartoria. Un'opera che variandosi ripete continuamente se stessa è un'opera morta; non cerco un oggetto, cerco un'immagine. Mi è difficile rispondere alla domanda che cosa significa o che cosa si propone di significare questo o quel dato lavoro, è l'opera che vuole diventare cosl e quindi occorre interrogare l'opera, non certo l'artista. D'altra parte l'alfabeto della pittura penso non appartenga né alla parola né al pensiero logico. Un'opera è un golem con dentro la parola. 13

Per me la geometria è come l'immagine del criptogramma enigmatico che appare nel Faust di Rembrandt, un alfabeto, un punto interrogativo, la scrittura di un oracolo, l'elemento introverso, astratto, metafisico di {ronte all'elemento naturalistico. Hai mai fatto un autoritratto? Le opere sono tutte degli autoritratti. Ma hai mai fatto un vero autoritratto? Sl, uno solo, la mia ombra impressa su una tela. Parlami della Grande Pietra, di questa esperienza così unica e singolare. Tutti cercano difare ope�e nei luoghi di maggiore attenzione e concentrazione di interessi e tu fai una scultura in Egitto. Mi sembra evidente come la dimensione interiorizzata del lavoro venga sempre di più messa al bando e i lavori siano tanto più accettabili quanto più cercano di identificarsi con l'immagine pubblicitaria, accettabili a condizione che si riducano sempre di più a una funzione innanzitutto decorativa. Ed è la costrizione quasi a dover urlare più forte degli altri in un mondo di sordi, dove nessuno ti ascolta e si ascolta, dove occorre sbattere in faccia i lavori come cartelloni pubblicitari, perché chi passa davanti a quello che fai si comporta esattamente come se passasse davanti a un quadro in automobile. C'è il bisogno solo di guardare immagini che ottundano, americane. A questo punto la prima cosa che pensi è la necessità che il lavoro ha di rendersi segreto, di rendere clandestino il pensiero. È l'isola dove si trova il lavoro che si chiama Isola della Grande Pietra. Un'isola era il luogo più eremitico e allegorico per fare questo lavoro e l'Egitto è innanzitutto un luogo della mente. La Pietra è fatta per un giardino che è al centro dell'isola e adesso è rimasta laggiù, inafferrabile; ora mi sento come un cane randagio che ha trovato una caverna sotterranea per dormire, il rifugio più segreto, e segreto è la parola che sta più vicina a infinito. 14

Le statue sono forme che hanno abbandonato l'uso della parola e con le quali si può comunicare solo in una lingua transmentale. La statua nel mio lavoro è una figura umana, è presa come immagine pura, assoluta, non come riferimento colto, slegata da ogni simbolismo; quindi non si tratta di citazioni, ma piuttosto di ritratti o di autoritratti, è il volto dell'uomo che mi importa. Non uso mai la statua così com'è, ma la trasformo con il colore, la dipingo, la modifico. Scelgo la statua perché è la quintessenza dell'uomo. Non mi importa dei suoi attributi mitologici. E poi la statua armonicamente si coniuga con il sentimento malinconico che le è proprio e che è proprio dell'uomo, la statua è il simbolo della malinconia e della solitudine. E la notte è la dimensione più confacente a questa presenza. Una statua di notte si umanizza, di giorno invece diventa oggetto, di giorno si pietrifica e di notte possiede l'anima, vive dell'ombra, l'ombra è la sua anima. Le statue sono la saggezza dei vivi. Le forme e le immagini come sopra una scacchiera si incrociano, si intrecciano, si inseguono. Mi piace guidarle quasi a voler soddisfare il loro segreto desiderio di stare vicine, come oggetti che si amano. Gli oggetti separati uno dall'altro vivono una sorta di esilio muto, avvicinarli significa stabilire tra di loro un rapporto dialogico che dà a queste forme mute un principio vitale. È così che questi oggetti inanimati stabiliscono tra loro legami segreti e profondi. Il lavoro non è altro che un frammento di realtà; tu trasformi una materia, quindi in qualche modo trasformi la realtà, realizzi un'opera e l'opera si colloca di nuovo accanto alla realtà da cui proviene e ritorna di nuovo eloquente e nello stesso tempo muta. Il lavoro vede annullata dalla realtà stessa la distanza tra sé e l'interpretazione; in altre parole qualsiasi oggetto interpretato è altrettanto 15

enigmatico di un oggetto trovato. Non c'è nessuna analisi, nessuna ricerca a priori che guidi la scelta, la convivenza di immagini o di oggetti in un'opera. Non c'è nessuno schema preordinato. È sufficiente un contatto, una contaminazione, un'associazione, una scintilla tra diversi elementi ed ecco generarsi infinite relazioni, infinite ragioni prima impensabili; le forme vengono esaltate e si caricano di una vita sotterranea, di una energia, di un'anima che prima non possedevano o sembravano non possedere. Non c'è nulla di prestabilito, tutto avviene dopo, mai prima, tutto è nell'atto, nell'istante. Chi guarda è pensato come un elemento di completamento dell'opera, ed è evidente che la vita di quest'opera può essere tale solo se c'è questo rapporto che la fa vivere. Il massimo della sua espressività lo trova proprio nel rapporto con l'occhio di chi guarda. Francamente non me ne importa assolutamente niente dell'osservatore nel momento in cui il lavoro nasce, poi certamente ci sono dei conti da fare, conti che un artista deve fare innanzitutto con se stesso e con il pensiero degli altri artisti. In virtù della pura osservazione le cose diventano altre cose; le animiamo con l'intuizione e questa diviene la loro nuova forma visibile. Occorre tener sempre presente quella cosa essenziale che è la misura, cosl come è necessario saper trattenere se stessi e lasciare respiro all'opera perché questa possa mostrarsi unicamente nella sua secchezza e nella sua assolutezza e apparire in tutta la sua complessa immediatezza e semplicità, come generata dal miracolo. Diciamo che nel lavoro deve sentirsi più la mente che il fiato. L'opera deve saper comunicare il proprio senti16

mento più che quello dell'artista, solo così può aspirare a esprimersi in un linguaggio totale. L'autore deve apparire nell'opera come un'immagine riflessa sull'acqua, presente ma assente. Un lavoro cresce di dentro con una gestazione lentissima, di cui non possiamo prevedere la durata, per poi apparire alla luce sempre improvvisamente e sempre guidato dal caso e solo_dal caso, come un fiore dell'anima. Un'opera è una forma vivente, trepidante e delicatissima; una porta dischiusa sul buio di se stessi e le mie opere sono come gocce di rugiada appese a un filo d'erba. C'è più vita per me, più verità, più senso del tragico in uno straccio abbandonato per terra che in tutta la tragedia classica. Da una parte certa scultura greve, truce, lorda, piuttosto che plastica si potrebbe definire arte muscolare, dal1'altra certa arte così cucinata, così confezionata, così passata sotto il ferro da stiro fa pensare sempre a Cocteau: «Trop de tecnique, peu d'idées». Il miglior insegnamento in pittura l'ho avuto dalla musica di Bach e da ragazzo durante le notti lungo i canali stellati della valle del Po, dove l'acqua lenta alimentava il fuoco assoluto. Ci sono lavori che ho realizzato nel 1975-76 che ho chiamato teatri, teatri statici. Sono lavori costruiti effettivamente come piccoli teatri ma in realtà sono teatri antiteatrali. Luoghi dov'è rappresentata unicamente l'energia evocatrice del colore allo stato puro e dove i soli protagonisti sono la luce e l'ombra. Teatri del silenzio, per essere più precisi. Teatri di tele bianche dipinte unicamente dal 17

passaggio dell'ombra e della luce sulle loro superfici. L'opera allo stato puro, l'opera mentale e immateriale si c.olloca a metà strada tra l'occhio e l'immagine creata. Sospesa in questa terra di nessuno, è lì che si materializza l'essenza intima del lavoro, che avviene quella che si potrebbe chiamare divina metamorfosi. Ho pensato il corpo della terra come il museo più giusto e sensibile per accogliere una scultura, una scultura come un cuore pulsante dentro la terra. Mistico e spirituale sono parole difficili da pronunciare, anche se penso che il lavoro non può nascere se non in una condizione di spiritualità laica. Lo spirituale che alcuni intravedono nel mio lavoro lo chiamerei semplicemente una convinzione profonda che fa parte di una vis10ne. Le motivazioni esterne passano sempre dentro di noi. Noi non rappresentiamo quello che vediamo, noi non conosciamo e non vediamo le cose come sono. Noi vediamo quello che sentiamo. In che direzione va il mio lavoro, la mia ricerca? Non ho mai sentito l'urgenza, l'importanza di domandarmi questo. Ciò che ho vissuto non coincide perfettamente con ciò che ho pensato. Teorie, profezie, programmi non sono che dei buoni propositi, l'arte non si descrive, l'arte si fa; tutto il suo universo è nell'istante. Quello che faccio mi permette di penetrare per brevi momenti certi luoghi della mente che fino a un attimo prima erano sembrati inaccessibili. Il mio lavoro mi dà la forza per vivere, questa è la sua direzione. Tendo a fuggire, a nascondermi, ad accettare le mostre 18

come una costrizione, ma la tensione forte è ad andarmene via, a fuggire da quella che spesso mi sembra una mascherata collettiva della società. L'opera è un brandello di carne sanguinante e a volte è doloroso esporre la propria carne. Gli artisti hanno sempre fatto per mostrare ed è naturale che sia così, ma ora è urgente mostrare anche che non si può più mostrare. Lei mi chiede come vivo; vivo come pare abbia vissuto Kavafis ad Alessandria d'Egitto, finestre sbarrate e luci accese nello studio anche di giorno. Non credo ci sia altro messaggio da trasmettere che il segno, la traccia del nostro passaggio bruciante, del nostro essere comete. Noi procediamo come ciechi. Claudio Parmiggiani I brani qui riuniti sono tratti da interviste rilasciate da Claudio Parmiggiani e apparse in pubblicazioni diverse tra il 1985 e il 1988 e presso Mazzotta editore. 19

Memorie di ciechi «Gliene capitano di cose: giorno e notte.» «Devo ammettere, è vero, che ne ho viste delle belle, in questi ultimi tempi. E tutto è archiviato, non sono il solo a poterlo testimoniare. L' 11 luglio, dunque - sono guarito (sentimento di conversione o di resurrezione, di nuovo il battere della palpebra, il mio viso resta assillato da un fantasma di sfiguramento) - è il primo appuntamento al Louvre. La sera stessa, mentre rientro a casa in macchina, il tema della mostra mi si impone. Quasi di colpo, in un solo istante. Guidando scarabocchio un titolo provvisorio, a uso privato, per classificare i miei appunti: L'ouvre où ne pas voir1 che al mio rientro diventa un'icona, ovvero una finestra da "aprire" sullo schermo del mio computer. Questo, gliene ho già parlato, non deve esser letto come il diario di una mostra. Lo penso solo come un'occasione o il luogo di una domanda pensosa: cosa potrebbe essere un journal, diario intimo o giornale, di un cieco e il giorno, quindi, il ritmo dei giorni e delle notti senza giorno, le date e i calendari che scandiscono le memorie? Come si potrebbero scrivere delle memorie di ciechi? Dico le memorie, non dico ancora i canti, né i racconti, né i poemi di ciechi, nella grande filiazione notturna che seppelli20

sce Omero eJoyce, Milton e Borges. Lasciamoli aspettare nell'ombra. Mi accontento per ora di accoppiare tra loro a due per due questi grandi vecchi dagli occhi spenti che appartengono alla nostra memoria letteraria, come nella doppia rivalità di un duello. L'autore di Ulysses una volta che ebbe scritto la sua odissea quasi cieco, un'operazione alla cornea dopo l'altra. I temi dell'iride o del glaucoma invadono allora Finnegans Wake (...the shuddersome spectacle of this semidemented zany amid the inspissated grime of his glaucous den making believe to read his usylessly unreadable Blue Book ofEccles, édition de ténèbres... 2 ). Tutta l'opera joyciana coltiva i bastoni, le aste viventi. Quanto a Borges, tra gli antenati ciechi che identifica o rivendica nella galleria della letteratura occidentale, è visibilmente conMilton che rivaleggia, è con Milton che vorrebbe identificarsi, è da lui che attende, con o senza modestia, i titoli nobiliari della propria cecità. Questa ferita è anche un segno di elezione che bisogna saper riconoscere in sé, il privilegio di una destinazione, la missione assegnata: nella notte, dalla notte stessa. Per evocare la grande tradizione degli scrittori ciechi, Borges gira allora attorno a uno specchio invisibile. Contemporaneamente a una celebrazione della memoria, schizza un autoritratto. Ma descrive se stesso designando l'altro cieco, Milton, soprattutto il Milton autore di quell'altro autoritratto che fu SamsonAgonistes. La confidenza s'intitola Cecità: Disse Wilde: "I Greci sostenevano che Omero fosse cieco per far capire che la poesia non deve essere visiva, che suo dovere è di essere uditiva'' [...] Passiamo all'esempio di Milton. La cecità di Milton fu volontaria. Sapeva fin dall'inizio che sarebbe diventato un grande poeta. Questo capitò ad altri poeti[...] anch'io, se posso fare il mio nome. Sempre-ho sentito che il mio destino era, prima di tut21

to, un destino letterario, cioè che mi sarebbero successe molte cose cattive e poche buone. Ma sempre ho saputo che tutto questo, alla lunga, si sarebbe convertito in parole [...]. Ritorniamo a Milton. Consumò la vista a scrivere libelli in difesa dell'esecuzione del re ad opera del Parlamento. Milton dice che la perse volontariamente, difenden- . do la libertà; parla di questo nobile ufficio e non si lamenta di essere cieco [...] Trascorreva la maggior parte del suo tempo in solitudine, componeva versi e la sua memoria si era intensificata. Poteva ricordare a memoria quaranta o cinquanta endecasillabi senza confonderli e poi li dettava a chi andava a trovarlo. Così compose il poema. Ricordò e pensò al destino di Sansone tanto simile al suo, perché Cromwell era già morto ed era giunta l'ora della Restaurazione [...]. Ma Carlo II - figlio di Carlo I "Il Giustiziato"-, quando gli portarono l'elenco dei condannati a morte, prese la penna e disse, non senza nobiltà: "C'è qualcosa nella mia destra che si rifiuta di firmare una sentenza di morte''. Milton si salvò, e molti altri con lui. Scrisse, allora, Samson Agonistes3 • Genealogia singolare, singolare esposizione, espos1z10ne di sé tra tutti questi ciechi illustri che hanno memoria l'uno dell'altro, si salutano e si riconoscono nella notte. Borges aveva cominciato da Omero, finisce con Joyce e, sempre così modestamente, con l'autoritratto dell'autore da cieco, da uomo della memoria, subito dopo un'allusione alla castrazione: 22 Joyce portò una musicalità nuova all'inglese. E disse coraggiosamente (e falsamente) che "Di tutte le cose che mi sono capitate credo che la meno importante sia quella di essere diventato cieco". Ha realizzato parte della sua vasta opera nell'oscurità: perfezionando le frasi nella mente [...] Democrito di

Abdera si strappò gli occhi 1.n un giardino perché lo spettacolo della realtà esterna non lo distraesse; Origene si castrò. Ho fatto molti esempi; alcuni così illustri che mi vergogno di aver parlato del mio caso personale; salvo per il fatto che la gente sempre si aspetta delle confidenze e io non vedo perché debba negarle le mie. Sebbene, naturalmente, sembri assurao mettere il mio nome vicino ai nomi che ho avuto modo di ricordare4 • Ho fatto notare che Borges aveva "cominciato da Omero". In realtà aveva cominciato da Wilde che parlava di Omero. Ora, Wilde è l'autore del Ritratto di Dorian Gray, storia di omicidio o di suicidio, di rovina e di confessione. È anche il racconto di una rappresentazione che porta la morte: un ritratto mortifero riflette dapprima i progressi della rovina sul viso del suo modello che è anche suo spettatore, quindi il soggetto guardato e poi condannato dalla sua immagine: It was his beauty that had ruined him. [. ..] There was blood on the painted feet, as though the thing had dripped -blood even on the hand that had not held the knife. Con/ess? Did it mean that he was to confess? To give himself up, and be put to death?5 Letteratura di opere omicide. Al muro della stessa mostra, si sarebbe dovuto appendere Il ritratto ovale di Poe: ritratto contemporaneamente visto e letto, storia di un artista che uccide il suo modello esaurito, ovvero sua moglie, dopo averne consegnato il corpo alla rovina. L'esperienza di un pittore che fa coppia con il suo modello è quella di un marito che '' non voleva vedere che la luce che piombava così lugubremente in questa torre isolata consumava la salute e lo spirito della sua donna che langui23

va visibilmente agli occhi di tutti, tranne che per lui [...] Il pittore [...] lavorava notte e giorno per dipingere colei che amava tanto [...] Non voleva vedere che i colori che spargeva sulla tela venivano tratti dalle guance di colei che era seduta accanto a lui". A ritratto quasi finito, il marito "fu colto da sgomento; e gridando con voce squillante: 'In verità, è la Vita stessa!' si voltò bruscamente a guardare la sua amata: - Ella era morta! "6 • Questo non è quindi il diario di una mostra. L'invito che mi era stato fatto non mi aveva solo onorato. Mi aveva intimidito, addirittura inquietato gravemente. È ancora così, forse al di là del ragionevole. All'angoscia, naturalmente, si mescolava un oscuro giubilo. È forse perché la mia esperienza del disegno fu sempre quella di un'infermità, e peggio, di un'infermità colpevole, oserei dire di un oscuro castigo? Doppia infermità: ancora oggi penso che non saprei mai né disegnare né guardare un disegno. In verità mi sento incapace di seguire con la mano la prescrizione di un modello: come se, nel momento di disegnare, non vedessi più la cosa. Quest'ultima evade subito, sparisce ai miei occhi, non ne resta quasi nulla, sparisce sotto i miei occhi che percepiscono solo, in verità, l'arroganza beffarda di quell'apparizione che scompare. Per quanto resta davanti a me, la cosa mi sfida allora producendo, come per emanazione, un'invisibilità che essa riserva per me, una notte di cui sarei in qualche modo l'eletto. Mi acceca facendomi assistere allo spettacolo penoso. Esponendomi, mi prende a parte ma anche a testimone. Da qui una specie di passione del disegno, una passione negativa e impotente, la gelosia di un disegno in sospeso. E lo vedo senza vedere. Il bambino in me si dice: come pretendono di guardare contemporaneamente un modello e i tratti che dalla loro mano si dedicano gelosamente alla cosa stessa? Non bisogna esser ciechi all'uno o al24

l'altro? Accontentarsi sempre della memoria dell'altro? L'esperienza di questa infermità vergognosa appartiene a un romanzo familiare; mi limiterò a un tratto soltanto, un'arma e un sintomo senza dubbio, nondimeno una causa: la gelosia ferita davanti a un fratello maggiore di cui ammiravo, come tutti in famiglia, il talento di disegnatore - e l'occhio, insomma, che senza dubbio non ha mai smesso di accusare nel mio intimo, in cuor mio, un desiderio fratricida. Le sue opere, lo dico in modo del tutto fraterno, erano solo delle copie: spesso dei ritratti a matita nera o a inchiostro di china che riproducevano certe fotografie di famiglia (mi ricordo il ritratto di mio nonno dopo la sua morte, berretto, barbetta e lenti tonde) o certi quadri già riprodotti su dei libri (mi ricordo ancora quel vecchio rabbino in preghiera; ma mio nonno Mosè, senza essere rabbino, incarnava per noi la coscienza religiosa: una rettitudine venerabile lo poneva al di sopra del sacerdote). Soffrivo nel veder esposti in permanenza i disegni di mio fratello, religiosamente incorniciati sui muri di tutte le stanze. Cercavo di imitare a mia volta le sue copie: una penosa goffaggine mi rafforzava nella doppia certezza di esser stato punito, privato, leso, certo, ma anche, e per questo stesso motivo, segretamente eletto. Avevo inviato a me stesso, che non esistevo ancora, il messaggio indecifrabile di una convocazione. Come se, al posto del disegno, a cui il cieco iri me rinunciò per la vita, fossi chiamato da un altro tratto, questa grafia di parole invisibili, quest'accordo del tempo e della voce che si chiama verbo - o scrittura. Sostituzione, quindi, scambio clandestino: un tratto per l'altro, tratto per tratto, punto per punto. Parlo di un calcolo quanto di una vocazione, e lo stratagemma fu quasi deliberato. Stratagemma, strategia, tempo di guerra. Parola d'ordine fratricida: economia del disegno. Del disegno visibile, del disegno in quanto tale, come se mi fossi detto: io, io scriverò, mi dedicherò alle parole che mi chiamano. Vede bene che anche qui le preferisco ancora, tiro at25

torno al disegno dei fili di lingua, anzi tesso, con l'aiuto di tratti, aste e lettere, una tunica di scrittura dove catturare il corpo del disegno alla sua stessa nascita, impegnato come sono a comprenderlo senza artificio; perché tutto ciò ci capita in realtà, non è vero?, in un movimento di occhi e di vecchi, grazie agli dei e al due, al doglio e al duello (dell'"ella" ci aspetta forse, e dell"'egli", e quanto dovuto, un'isola [du/ile] o un lei [du/elleF, e tutta la famiglia di occhi "pers, glauchi"8 : Athena Glaukopis -, "perforanti". Athena Oxyderkès o Gorgopis -, o "perforati", tutti i "per" che ci implorano in segreto attraverso la filiazione omonimica dei "pères, padri" ciechi, delle "paires, paia" d'occhi, della vista che si "perd, perde", liberata all'alea dei significanti o al gioco di mosca cieca dei nomi propri [Perseo] di cui la Fortuna dagli occhi bendati sembra esser prodiga. Tra le due serie che ho appena evocato, il padre e l'occhio [oeil], si disegna la figura dell'avo [aieul][avus]. I vecchi ciechi attraversano in folla, è l'esperienza stessa dei padri, lo spazio delle nostre memorie. Se l'esperienza è l'autorità, come diceva Bataille, non è anche la cecità? Qui non si tratta di cedere al giubilo ludico, né di manipolare vittoriosamente parole o vocaboli. Al contrario, lei può sentirli risuonare per conto loro nel fondo del disegno, talvolta sulla sua stessa pelle; perché il rumore di queste sillabe vi sorge in anticipo, dei pezzi di parole lo parassitano, e per percepire questo assillo, bisogna abbandonarsi ai fantasmi del discorso chiudendo gli occhi). Economia del disegno, dunque. Il disegno torna sempre. Si rinuncia mai? Si fa mai lutto del disegno? La mia ipotesi di lavoro significava anche: lavoro del lutto. L'inconscio non rinuncia a nulla. In vita mia non ho mai più disegnato, nemmeno ho cercato di disegnare. Salvo l'inverno scorso, e ancora conservo l'archivio di questo disastro, quando mi venne il desiderio, e la tentazione, di schizzare il profilo di mia madre, che vegliavo al suo letto d'ospedale. Costretta a letto da un anno, in un mero soprav26

vivere, tra la vita e la morte, quasi murata nel silenzio di questa letargia, non mi riconosce più e i suoi occhi sono velati dalla cataratta. In che misura veda, e quali ombre le passino davanti, se poi si veda morire: possiamo solo farne l'ipotesi. Ho detto spontaneamente di mia madre che era "murata"? In quella che si potrebbe chiamare la retorica della cecità, è una delle figure tipiche. La cieca di Rilke (die Blinde, è una donna, questa volta9 , e la grammatica de "l'aveugle" in francese non permette di distinguere un cieco da una cieca) dice i suoi "occhi murati" (vermauerten Augen). Questi muri piombati rinchiudono nella notte della cripta (i farisei ciechi sono "sepolcri imbiancati", il Samson di Milton si presenta come un morto vivente, esiliato dalla luce, sepolto in sé in una tomba in cammino: "Myselfmy sepulchre, a moving grave, buried.. . "10), tramezzano così dietro alle pareti di una prigione. Samson si dice doppiamente confinato, "in prigione nella prigione", non sapendo più quale "deplorare" (bewail) maggiormente, la letterale, quella di pietra, o l'altra, più interiore ancora, come "en abyme" dietro le pareti dell'occhio ( "Which shall Ifirst bewail,/ Thy bondage or lost sight,/ Prison within prison/ Inseparably dark? Thou art become (O worst imprisonment)/ The dungeon o/ thysel/"11). La claustrazione del cieco può quindi isolarlo dietro pareti nude. Deve allora far lavorare le mani e le unghie. Ma l'abisso dell'isolamento può anche restar liquido, come la materia dell'occhio, come le acque di un Narciso che non vedrebbe più nient'altro che se stesso, niente attorno a sé. L'isolamento speculare richiama allora l'insularità dell'immagine o ancora, per riflettere !"'abbandono" del cieco e la sua solitudine luttuosa, l'immagine dell'isola: "Sono un'isola", dice lei. Die Blinde: "Ich bin van allem verlassen. - / Ich bin eine Insel". E allo straniero venuto dal mare: "Ich bin eine Insel und allein "12 . Ma la solitudine è "ricca", l'insularità non isola o non "priva" di nulla poiché "tutti i colori sono tradotti (iibersetzt) in suoni e odori (in Gerà·usch 27

und Geruch)". Siamo in luglio, dopo la guarigione. Una volta scelto il tema (ora bisogna andare in fretta e schematizzare a grandi tratti), esito allora tra due paradossi, due grandi "logiche" dell'invisibile all'origine del disegno. Due pensieri del disegno , quindi, si disegnano e, correlativamente, due "accecamenti".» «Dia loro dei nomi: come promemoria.» «Li soprannomino: il trascendentale e il sacrificale. Il primo sarebbe l'invisibile condizione di possibilità del disegno, il disegnare stesso, il disegno del disegno. Non sarebbe mai tematico. Non potrebbe porsi o prendersi come l'oggetto rappresentabile di un disegno. Diventando il tema del primo, il secondo, ovvero l'evento sacrificale, ciò che raggiunge gli occhi, il racconto, lo spettacolo o la rappresentazione dei ciechi, diciamo che rifletterebbe questa impossibilità. Rappresenterebbe questo irrappresentabile. Tra i due, nella piega dei due, l'uno ripetendo l'altro senza ridursi ad esso, l'evento può dar luogo alla parola del racconto, al mito, alla profezia , al messianismo, al romanzo familiare o alla scena di vita quotidiana, fornendo in questo modo al disegno i suoi oggetti o spettacoli tematici, le sue figure, i suoi eroi, i suoi quadri di ciechi.» Jacques Derrida Traduzione di Giovanni Scibilia da Memoires d'aveugle. L'autoportrait et autres ruines, Réunion des Musées Nationaux, Paris, 1990, pp. 38-46. 28

NOTE 1 [Louvre dove non· vedere, ma anche Persiana dove/o non vedere - seguendo l'allusione successiva alla finestra sul computer - oppure L 'apro o non vedo - riferito all'occhio chiuso per la paralisi facciale di cui si parla precedentemente (Le note fra parentesi quadre sono del traduttore)]. 2 James Joyce, Finnegans Wake, New York, p. 179: «...spectacle quelque peu frissonnant de ce bouffon semi démenté, par l'épaisse crasse de son antre glauque, que l'on fit semblant de lire son Initulyssible parce qu'illisible Livre Bleu de Klee, édition de ténèbres...» (tr. Ph. Lavergne, Paris, 1982, p. 194). Fatalmente la traduzione perde molto: non solo, e non era inevitabile, il fatto che «édition de ténèbres» è in francese nel testo, ed ecco che la lingua originale diventa invisibile, nelle sue stesse tenebre; ma, fatto più grave, perde la vista, meglio, l'allusione alla perdita dell'occhio: «usylessly», ovvero anche «come senz'occhio», eyeless. 3 «La cecità» in Id., Sette notti, tr. it. di M.E. Moras, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 128-130. A questa conferenza, che bisognerebbe citare per intero, si devono anche associare quelle poche pagine intitolate «L'artefice» (in Tutte le opere, I, Milano, Mondadori, 1985, pp. 1103-1107, tr. it. di F. Tentori Montalto). I motivi della memoria e della discesa vi si intrecciano regolarmente attorno a un ricordo che forse fu un sogno: «Quando seppe che stava diventando cieco, gridò[...] ma una mattina si destò, guardò (ormai senza stupore) le confuse cose che lo circondavano e inspiegabilmente sentl [...] che tutto quello gli era già accaduto [...] Allora discese nella sua memoria, che gli parve interminabile, e riuscì a trarre da quella vertigine il ricordo perduto che brillò come una moneta sotto la pioggia, forse perché non l'aveva mai contemplato, se non, chi sa, in un sogno. Il ricordo era questo. Un altro ragazzo lo aveva ingiuriato ed egli era andato da suo padre e gli aveva raccontato il fatto. Questi lo lasciò parlare come se non lo ascoltasse o non comprendesse, poi staccò dalla parete un pugnale di bronzo, bello e carico di potere, che il ragazzo aveva bramato furtivamente. Ora lo teneva nelle mani e la sorpresa del possesso annientò l'ingiuria patita, ma la voce del padre stava dicendo: Sappia qualcuno che sei un uomo, e nella voce era un ordine. La notte accecava le vie; stretto al pugnale, nel quale presentiva una forza magica, discese il ripido pendio che circondava la casa e corse alla riva del mare, sognando d'essere Aiace o Perseo e popolando di ferite e di mischie l'oscurità salmastra. Il sapore preciso di quel momento, era ciò che ora cercava; non gl'importava il resto: le ingiurie della sfida, la lotta maldestra, il ritorno con la lama insanguinata. Un altro ricordo, nel quale erano ugualmente una notte e un'imminenza d'avventura, nacque dal primo. Una donna, la prima che gli concessero gli dei, lo aveva atteso nell'ombra di un ipogeo [...] In quella notte dei suoi occhi mortali dove discendeva ora [...] il rumore delle Odissee e delle Iliadi che era suo destino cantare e lasciare, concavamente risonanti, nella memoria umana. Sappiamo queste cose, ma non quelle ch'egli sentl discendendo nell'ultima ombra». 29

4 «La cecità», cit., pp. 132-133. 5 Oscar Wilde, The Picture o/ Dorian Gray, New York, 1985, p. 246 («Era la sua bellezza che l'aveva rovinato [...] C'era del sangue sull'immagine dipinta del piede, come se la cosa avesse sgocciolato - sangue anche sulla mano che non aveva tenuto il coltello. Confessare? Significava che doveva confessare? Consegnarsi ed esser messo a morte?» [trad. nostra]). 6 Edgar Allan Poe, Il ritratto ovale. 7 [Tutte omofonie di deuil e duel. Allusione all'isola in cui si identifica la cieca nella poesia di Rilke Die Blinde, come si chiarisce poco dopo]. 8 [Gioco di parole intraducibile: d'yeux pers significa "di occhi glauchi" ma suona anche come dieu père, "dio padre"]. 9 Tra i ciechi di Rilke, che pure cantano - tutti e tutte - la condizione poetica, ovvero il lirismo stesso in quanto apre al di là del visibile, diamo la parola solo a quello di un sogno. Differentemente da Die Blinde, il sogno del cieco riguarda un uomo. Un uomo sembra farne parlare un altro per restituire gli occhi all'uomo. Questi occhi sono le stelle. Invertendo un'allegoria astrale o oculare vecchia quanto il cielo, restituisce gli occhi all'uomo rispondendo alla domanda posta da una ragazza. Lei avevadetto a un giovane cieco, che - senza riuscirci - «si sforzava visibilmente di svegliarsi» mentre il suo «occhio» «sembrava vuoto»: «Non serve a nulla, dice la ragazza con la sua voce trasparente di un riso diluito, non ci si può svegliare prima che gli occhi siano tornati». «Stavo per domandare "Che voleva dire?". Ma improvvisamente compresi. Mi ricordai di un giovane operaio russo della campagna che, quando arrivò da Mosca, credeva ancora che le stelle fossero gli occhi di Dio e gli occhi degli angeli. Lo avevano dissuaso. In verità, non si poteva provare il contrario di nulla, ma si poteva dissuaderlo. E a ragione. Perché le stelle sono gli occhi degli uomini che fuggono dalle loro palpebre chiuse, e salgono, e diventano chiari, e si riposano. È il motivo per cui, in campagna, dove tutti dormono, il cielo ha tutte le stelle, e al contrario, al di sopra delle città non ce ne sono che poche, perché ci sono molti uomini che s'inquietano, piangono, leggono, ridono o vegliano, e che tengono aperti i loro occhi» ([Derrida cita, e noi traduciamo, da] Le livre des reves, Le septième reve, tr. fr. di M. Betz in Oeuvres en Prose, Paris, Seuil, 1966, pp. 281-282). In Gong Rilke scrive anche: «Bisogna chiudere gli occhi e rinunciare alla bocca,/ restare muti, ciechi, abbagliati:/ lo spazio tutto scosso, che ci tocca/ vuole dal nostro essere solo l'udito» [Derrida cita, e noi traduciamo, da] Poésie, Oeuvres, 2 (Paris, 1972), curato da Paul De Man, l'autore di Blindness and Insight (Minneapolis, 1983) che cita pure questi versi in Allégories de la lecture (tr. fr. di T. Trezise, Paris, Galilée, 1989, p. 81). 10 [ «Io stesso il mio sepolcro, una tomba in cammino, inumata...»]. 11 «Cosa piangerò per prima, / La tua prigione o la vista perduta / Prigione nella prigione / Inseparabilmente scura? Sei diventato (oh peggiore delle prigioni) / Il carcere di te stesso» [trad. nostra]. 12 «Sono abbandonata da tutti [da tutto]. / Sono un'isola (... ) Sono un'isola e sola» [trad. nostra]. 30

Il quadro e il rombo Paul Klee e il destino pittorico del soggetto tra trauma e figurazione La sclerodermia diffusa ha un decorso lento e progressivo che presenta la trasformazione dello strato sottocutaneo in tessuto fibroso. La cute diviene insieme sottile e dura, dura fino a ostacolare i movimenti, da quelli mimici del volto a quelli più ampi degli arti. In un dipinto del 1925, La maschera con bandierina, due sono i punti Paul Klee, La maschera con bandierina, 1925. 31

che Paul Klee mette in evidenza con una tinta quasi nera su un testo appena sfumato di rosso: una bandierina conficcata nel cranio della testa con spalle che vi è rappresentata e un rombo nitido, centrale, una oscura apertura nel contorno impercettibile delle labbra. Il viaggio di conquista, sono gli anni dei viaggi di Klee, a NewYork, a Parigi, per le mostre, poi in Italia e in Egitto, è ricondotto a un punto della testa, come se al movimento, come avviene nella prospettiva contenuta nei suoi disegni in cui il punto di vista vagante, proprio per trovarsi contemporaneamente in tre punti diversi, finisce con il bloccare gli slanci a spostarsi delle sue figurine, sempre si opponesse un contromovimento. Dieci anni più tardi la sclerodermia l'accompagnerà fino alla morte nell'esperienza di una maschera che si irrigidisce, di una gamba protesa che si blocca, di una corazza che lentamente si sostituisce alla pelle, senza alcun rumore di ferraglia. Il rombo che segna l'apertura della bocca, è un rombo silenzioso. Una bambina di otto anni viene portata in analisi. È una bambina normale, anche vivace, che presenta però, segnalato dalle insegnanti di scuola, un sintomo curioso: riesce a ripetere ciò che ha appreso solo nella stessa identica forma con cui l'argomento le è stato presentato. Se la domanda muta anche leggermente nella sua formulazione la posizione dell'oggetto studiato, non è possibile alcuna risposta da parte della bambina. La risposta può ricalcare la domanda, se la domanda ricalca una forma particolare, ormai determinata e non mutabile. Se l'insegnante ha questa accortezza, allora si può dire che la bambina ''va bene a scuola''. Questo "andare" consiste nel non muoversi, una rappresentazione, diciamo mentale, è il contromovimento alla "smania di viaggiare". Il comportamento a scuola di 32

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