Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 72 - inverno 1991-1992

1986, p. 27). Su questo punto risulta molto interessante anche il saggio di Felman S., Paul de Man's Silence, «New Inquiry», Summer 1989. 27 Cfr. Castelli E., Il problema della testimonianza, «Archivio di Filosofia», 1972, n. 1-2, p. 17. 28 Cfr. LyotardJ.F., Le Di//érend, Paris, Les Éditions de Minuit, 1983, p. 91. Sulla nozione di silenzio come «interruzione» si può vedere Valesio P., Ascoltare il silenzio, Bologna, Il Mulino, 1986, soprattutto alle pagine 381-86. Di utile consultazione è anche il recente saggio di Soshana Felman Paul de Man's silence, cit. 29 Sul suicidio di P. Levi non ha dubbi Bruno Bettelheim. Nella sua ultima intervjsta, prima di suicidarsi a sua volta il 13 marzo 1989, egli affermava: «E vero che chi si è salvato dai lager probabilmente non ne è mai stato veramente salvato. Ed è la ragione per cui gente così notevole come Primo Levi ha finito col togliersi la vita» (cfr. Bettelheim B., Colpa e vergogna: il Lager ti segna così. Per sempre, «Il Corriere della Sera», 20 maggio 1990, p. 3). Per un'ipotesi diversa si veda invece Levi Montalcini R., Non si è suicidato, «Panorama», 3 maggio 1987. Più in generale sul tema del suicidio si può vedere «The Rhetoric of Suicide» di Suzanne Stern-Gillet, in Philosophy and Rhetoric, voi. 20, n. 3, 1987, pp. 160-170. In quest'ultimo articolo si ripropone un'interessante distinzione tra «martire» e «suicida», ma quello che mi sembra più importante è che si riconosce la difficoltà ad attribuire uno statuto scientifico ad una tipologia del suicidio (ivi, p. 162). In ogni caso per quanto riguarda il caso Levi, piuttosto che insistere sulla «retorica del suicidio», mi sembra più produttivo indicare nella categoria della testimonianza la chiave interpretativa della vita e della morte dello scrittore. Alla problematica relativa al suicidio dei sopravvissuti, con particolare riguardo al caso di B. Bettelheim, è dedicato un intero numero della rivista «L'Excès. Nouvelle revue de psychanalise»; si tratta del n. 43 della primavera del 1991, intitolato appunto «Le suicide d'un survivant». 3 0 Cit., pp. 57-58. 31 Ivi, p. 14. Su questi punti si veda anche Bettelheim B., Sopravvivere, cit., p. 227. 3 2 Levi P., I sommersi e i salvati, cit., pp. 57-58. 33 Castelli E., cit., p. 20. 34 Ricoeur P., L'Herméneutique du Témoignage, «Archivio di Filosofia», 1972, n. 1-2, p. 54. L'ermeneutica della testimonianza, da questo punto di vista, non sembra entrare in contraddizione con la tradizione ebraico-cristiana. Infatti, nella tradizione ebraico-cristiana il testimone è testimone di un evento, piuttosto che di un fatto, di un evento piuttosto che di una verità, anche se poi la tradizione successiva ha identificato la verità con l'evento. L'evento è invece qualcosa che va oltre la verità, perché non appare semplicemente riducibile a termini logico razionali. Ecco allora che nella tradizione ebraica ha preso risalto la figura del Profeta, che non è tanto colui che annuncia il futuro, quanto piuttosto colui che interpreta la parola di Dio e aiuta il popolo ad andare oltre l'evento, a riscoprire il Dio nascosto, ma pur sempre rivelato. Su questo punto cfr. 209

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