Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 72 - inverno 1991-1992

22 Per quanto riguarda la morfologia, l'etimologia e la storia di questo vocabolo, cfr. il Grande lessico del Nuovo Testamento, vol. VI, fase. 5, Brescia, Paidea, 1970, pp. 1273-91. Com'è noto, è proprio questa nozione di martire come testimone di verità che viene messa in discussione da Nietzsche: «Segni di sangue essi hanno scritto sul cammino percorso, e la loro stoltezza ha insegnato che col sangue si dimostrerebbe la verità. Ma il sangue è il testimone peggiore della verità; il sangue avvelena anche la dottrina più pura e la trasforma in delirio e odio dei cuori». Cfr. Nietzsche F., «Dei preti», in Così parlòZarathustra, Milano, Adelphi, 1976, p. 110. 23 Bruno Bettelheim ha scritto che «chiamando "martiri" le vittime del nazismo mistifichiamo il loro destino. Il vero significato di "martire" è "chi per non rinnegare la propria fede accetta il sacrificio di se stesso fino alla morte"» (v. «L'olocausto una generazione dopo», in Sopravvivere, cit., p. 93). Voglio precisare che utilizzando la parola «martire» qui non intendo mistificare il destino delle vittime del nazismo, nel senso indicato da Bettelheim. Mi sembra invece opportuno, sulla scorta delle osservazioni di Primo Levi, insistere sul valore della «testimonianza» di chi, non certo per scelta sua, non ha potuto tornare dai campi di sterminio. 24 Levi P., La tregua, presentazione e note a cura dell'autore, Torino, Einaudi, 1965, v. nota 1, pp. 269-70. Si tratta, come si vede, di una sorta di «pessimismo cosmico» di cui e'è traccia anche nella poesia «Le stelle nere», del novembre 1974 (v. Opere II, cit., p. 550). La discutibile tendenza a fare dell' «olocausto» una metafora della vita quotidiana è oggi piuttosto diffusa. Su quest'ultimo aspetto ha scritto pagine molto interessanti Cristofer Lasch nel suo The minimal Se!/ Psychic Survival in Troubled Times, New York, W.W. Norton & Company, 1984. Si veda in particolare il cap. III, «The Discourse on Mass Death: "Lessons" of the Holocaust», pp. 100-129. 25 Levi P., I sommersi e i salvati, cit., p. 25. , 26 I sopravvissuti al Lager non solo devono scontrarsi con il carattere indicibile dell'esperienza di cui sono stati protagonisti, ma anche con l'incredulità della società civile (su questo punto dr. l'Introduzione di A. Bravo e D. Jalla, a La vita offesa, cit., p. 44; cfr. anche «Il prezzo della memoria», ivi, pp. 57-64). Si potrebbero citare molte altre fonti che esprimono l'impossibilità di un discorso proporzionato all'eccezionalità dell'«Olocausto». Mi limiterò a ricordare il pensiero di Elie Wiesel, secondo cui «at Auschwitz, not only man died, but the idea of man», cfr. Wiesel E., Legend o/our time, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1969, p. 190. In questa direzione va anche il discorso di G. Steiner, secondo cui l'universo concentrazionario «has no true counterpart in the secular mode. Its analogue is Hell», cfr. Steiner G., In Bluebeard's Castle: some notes towards the redifinition o/ Culture, New Haven, Yale University Press, 1971, p. 53. In questa prospettiva il silenzio appare come un punto naturale di approdo: «in weak or grandiose moods, we may be tempted to think that silence is the best of all responses to the unendurable», (cfr. Denby D., The Humanist and the Holocaust, «The New Republic», July 28, 208

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