gionieri del Lager ne I sommersi e i salvati30 , cercando di spiegare come mai i casi di suicidìo durante la prigionia sono stati rari. Più comuni sono i casi di suicidio dopo la prigionia, e Levi a questo proposito cita il celebre caso di Jean Amery sottolineando con lui che «chi è stato torturato rimane torturato»31 . Ma soprattutto è ancora una volta il «senso di colpa» del superstite a essere indicato come una delle più probabili ragioni del suicidio dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti: «il suicidio nasce da un senso di colpa che nessuna punizione è venuta ad attenuare»32. Non mi risulta che Primo Levi faccia alcun cenno nelle sue opere a un famoso episodio che si è consumato nel Lager di Auschwitz, nel luglio del 1941, quando il padre Massimiliano Kolbe ha chiesto di sostituire uno dei dieci condannati a morte (morte per fame), in seguito ad una rappresaglia del comando tedesco per la fuga di un detenuto. La testimonianza di padre Kolbe mi sembra, da un certo punto di vista, di fondamentale importanza per riannodare i fili del nostro discorso sul tema testimonianza e sul caso Levi. Affrontando la morte di un «altro», padre Kolbe ha testimoniato la sua fede nella caritas, affermando che se rimane vero che la vita è un valore in sé, è anche vero tuttavia che la nostra vita trova il proprio senso solo in funzione degli altri, in rapporto agli altri. Ma non possiamo parlare della morte al posto di un altro, dobbiamo parlare semplicemente della morte di un altro, di una persona. La vita umana non è intercambiabile, non si può sostituire. Allo stesso modo, per la stessa ragione, la vita di chi grazie a quel gesto può continuare a vivere, la vita del sopravvissuto, non è legata direttamente alla morte di un altro essere umano, nemmeno in questo caso estremo rappresentato dal gesto di padre Kolbe. Quale significato attribuire allora al suicidio dei sopravvissuti che non sia già presente nella scelta di Massimiliano Kolbe? In un certo senso le vicende che abbiamo preso in considerazione, pur 203
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