bra potersi affermare che il Primo Levi degli anni Ottanta preferisce sottolineare la complessità dell'«Olocausto», piuttosto che darne una spiegazione che si pretende esauriente, come se l'«Olocausto» fosse un fatto compiuto, da descrivere con le tecniche «neutrali» del linguaggio tradizionale. Da questo punto di vista, la vicenda di Primo Levi apparentemente sembra confermare la crisi del ruolo del testimone, che avverte la debolezza della posizione umana di fronte a un processo storico che lo sovrasta e che egli non riesce a comprendere. Ma nella scelta di Primo Levi non dobbiamo cogliere semplicemente la problematizzazione o il rifiuto del ruolo del testimone, la rinuncia ad indagare ancora il senso di ciò che non sembra aver alcun senso. Proprio nel caso Primo Levi possiamo invece trovare utili indicazioni da cui poter partire per comprendere una nuova realtà della testimonianza. È la direzione di quella che Enrico Castelli, con un linguaggio che Primo Levi avrebbe sottoscritto, chiamerebbe «testimonianza nostro malgrado», e una testimonianza di questo tipo, come scrive ancora Enrico Castelli, «esige un approfondimento del silenzio»27 • È bene precisare, tuttavia, che si tratta di un silenzio che non rimanda tanto ad una dimensione sacrale inattingibile all'esperienza umana, quanto piuttosto alla ricerca di una parola nuova che sappia riprendere il discorso sull'«Olocausto», liberandolo il più possibile da tutti i condizionamenti ideologici. Su questo punto ha scritto pagine piuttosto interessanti anche Jean François Lyotard nel suo Le Différend, dove afferma tra l'altro: «Le silence qui entoure la phrase: Auschwitz fut le camp de l'anéantissement, n'est pas un état d'àme, c'est le signe que quelque chose reste à phrasèr qui ne l'est pas, et. qui n'est pas déterminé»28 • Il caso Levi non si conclude con la pubblicazione de I sommersi e i salvati: rimane da considerare la vicenda della morte a quanto sembra per suicidio, dello scrittore29 • Primo Levi affronta direttamente il tema del suicidio di pri202
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