superficiali, e costituivano l'unica via che gli permetteva di infrangere le interdizioni dei genitori (i suoi sintomi giocavano un ruolo analogo certamente, ma costituivano una via più complicata): era puramente e semplicemente una condotta da ragazzo cattivo sotto la copertura della «assenza», era la sua vendetta nei confronti di sua madre che «si permetteva di fare dei bambini con suo padre». Attirai la sua attenzione sul fatto singolare che lui era un ragazzo gentile, si comportava come si deve, e che quando si metteva a fare una delle sue crisi - che per altri ragazzi rappresentavano ordinariamente solo una condotta cattiva - questo gli comportava la necessità di perdere la conoscenza: si metteva allora per esempio a stringere i denti, mordere la mamma, tirarle i vestiti ecc. In sua presenza invitai la madre a raccontargli ogni volta, finita la crisi, tutto quello che si era permesso di fare mentre l'aveva, ed a raccontarglielo senza avere nessun riguardo per le sue preghiere o per le sue lagrime. Poi gli dissi, con un tono scherzoso: «Quando ti comporti male e fai il cattivo con la mamma, sarà molto meglio che tu sappia quello che stai facendo, senza aver bisogno di perdere la conoscenza: io ti prometto che guarendo ritornerai bravo». Poi mi sforzai di provargli che questi episodi erano quasi interamente simulati. Un giorno provocai quasi volontariamente in lui uno stato di questa specie: quando fu sul punto di gettarsi sulla mamma gli presi con forza tutte e due le mani e lo misi a sedere su di una poltrona. «Mamma, Mamma!» gridò, come un ossesso, ed io, senza lasciargli le mani, gli ripetei: «tu sei incosciente e chiami mamma! Come sai dunque che non c'è la mamma qui con te?». Quando mi misi a scherzare, e a fargli il solletico sul naso, si difese. Infine, quando siamo diventati proprio buoni amici, e quando si fu definitivamente convinto che io cercavo seriamente di guarirlo, e gli avevo di già dato sollievo in misura notevole, cominciai·a pretendere da lui 232
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