Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 71 - autunno 1991

gno, così come due modi di leggere un racconto. Gli scrittori - anche i teorici della psicanalisi a volte lo sono - portano sulle loro spalle il peso doloroso dello sguardo dell'ignoto. La loro scrittura è guardata dallo sconosciuto, che si rivela appunto attraverso di essa, ed è questa l'unica vera e grande esperienza possibile dell'ignoto: sopportare pazientemente nella propria scrittura ciò che non è riducibile a sapere. Questo è lo spazio, il confine mirabile e indefinibile lungo il quale la parola si fa destino. C'è una fatica, un lavoro, in questo portare lo sguardo dell'Altro, che non permette mai di sprofondare nella passività del sintomo e al tempo stesso realizza l'unica possibilità «attiva» di incontrare l'ignoto. L'altra scrittura, quella degli abili saggisti che perlustrano i territori del sapere psicanalitico e letterariomoltiplicando all'infinito gli effetti di scoperta e di dominio, guarda lo sconosciuto: crede di poter circoscrivere lo spazio dell'ignoto, di poterne individuare e definire la fisionomia e gli effetti, la consistenza e le relazioni. In verità questa scrittura non è altro che amministrazione dei sintomi, radiografia dell'inconscio: il più ampio dispiegamento dell'apparato difensivo dell'io. Dice Federigo Tozzi, in una delle sue pagine migliori: «Quale umiliazione provava quando gli altri non rispettavano i suoi sentimenti e obbligavano la sua anima a disfarsi!». Quanta silenziosa e cupa tragedia in queste parole, e al tempo stesso quanta luce! Ma come rapidamente possono ridursi a un'inerte formuletta psicologica se commentate dai voraci interpreti. Cesare Viviani 207

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