smo», così come quella dell'.«angoscia di separazione». Il bambino immerso nei suoi giochi ha già accettato la separazione: gli psicologi dicono che ha solo sostituito un attaccamento a un altro. C'è da credere, invece, che abbia già fatto quello che fa il sapiente: sostituire l'attaccamento con un racconto (c'è già un teatro, una storia nei suoi giochi), l'idea di maternità con quella di destino, l'ormeggio con la navigazione. Invece quanto attaccamento e quanta paura nutrono ogni forma di pedagogia e di prassi educativa, grazie a quella concezione del rapporto umano inteso come doverosa interruzione di ogni isolamento. E quanto bisogno di relazioni, e quanta angoscia di separazione, nella struttura logica del pensiero di tanti psicologi e psicanalisti. Nessuno - nemmeno l'individuo più razionale o più nevrotico - avrà la sfrontatezza di negare l'ignoto. Lo si chiami «inconscio» o «inconoscibile», tutti ne ammetteranno l'esistenza. Ma dove il mondo si divide - e mai divisione fu più radicale, irrevocabile - è sull'esperienza o possibilità di percezione di questo grande fondo oscuro. E due sono i modi di concepirla, non se ne esce. Il primo: essere guardati dallo sconosciuto, è il modo degli inventori e degli scrittori. È una condizione che procura un'inquietudine inestinguibile, un senso di fragilità - l'azione proviene dall'ignoto: con tutto il nostro fare, il nostro scrivere, il nostro pensare il suo sguardo ci precede e ci domina. Il secondo modo, guardare lo sconosciuto, è quello dei fedeli seguaci, degli applicatori. Sono gli impiegati della psicanalisi e della letteratura. A forza di guardare, credono di avere individuato l'inconscio e di poterlo descrivere, delimitare. Da qui nasce la loro sicurezza aggressiva di interpreti. Questa bipartizione, fondamentale, si riverbera intensamente su ogni lettura e relazione: allora ci sono due sistemi, inconciliabili, di interpretare un so206
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