no. Dovrebbero al massimo arrivare a dire: «quella cosa (del paziente) non è questa (che noi pensiamo)». Invece affermano continuamente, secondo il più strumentale principio della logica che è l'identificazione: «quella cosa è questa». È il momento più buio dell'esperienza analitica: la suggestione degli affetti, nella condizione dell'allievo, e delle ragioni sociali, nella ricerca di un'identità riconoscibile di maestro, fa dei due analisti una coppia di poveri pazienti abbastanza sicuri di sé. In analisi e nelle teorie che la riguardano - e forse non solo qui - l'unico che può permettersi il pensiero logico è l'inventore: colui che crea, che scopre, può usare il territorio della logica per collocare la novità. Gli altri, i fedeli applicatori che non rischiano, non possono, pena il trasformarsi immediatamente - e immancabilmente ciò accade, a tutti loro - da analisti in commercianti: in eccellenti venditori di fumo. La molteplice verità della vita - dimensione ben più sconvolgente di quanto la definizione possa far pensare - o i segni del destino - ma si potrebbe anche dire: l'analisi - comportano, contrariamente a quanto il buon senso suggerisce, l'accettazione di un'esperienza radicale: l'assenza delle relazioni. Vale a dire, la separazione: non c'è più nessuno tra l'Io e la vita. Allora la scrittura non è rivolta ad alcuno, chi scrive può farsi portare senza riserve o inseguirla senza tregua fino alla «terra di nessuno»: là dove infinite distese non rivelano rapporto umano. Là dove chi scrive entra senza poter dire di essere entrato. Allora l'attenzione (per l'immagine) si protrae, esce dal tempo ordinario, non avverte più l'interferenza degli astanti: fissarsi non sarà un sintomo patologico ma una forma di adesione a ciò che non è commensurabile (tanto meno con i tempi delle convenienze quotidiane o dei modelli codificati di attenzione). Forse bisognerebbe riscrivere la storia del «narcisi205
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