si, da piccoli? Non era forse il modo più umano di preparare il distacco ingiustificato dagli oggetti amati? Un racconto prima del sonno non sarebbe forse ancora oggi, da adulti - i più pratici consigliano l'amplesso - la scelta appropriata per abbassare l'aggressività e l'angoscia? Continuo a pensare che il racconto sia il luogo dove si raggiunge il grado più alto di fiducia nella realtà e nella verità dell'esistenza: e ciò non tanto per la sovrabbondanza di fede fluttuante nella mente umana, quanto per la struttura di esso. C'è qualcosa in quella trama o tessitura che ha rapporti ineguagliabili con il lavoro e la stanchezza dell'uomo, con il suo fare e disfare: ma soprattutto con l'estraneità e l'irriducibilità del tempo. Per tentare di definire questa peculiarità strutturale della narrazione, si potrebbe considerare anche la condizione - attraente - di spettatore: che permette di illudersi di vedere negli altri quello che non riusciamo a vedere in noi. Ma la mia ipotesi è che il fascino irresistibile del racconto e la sua insuperabile verità derivino proprio dalla rappresentazione del tempo. La narrazione pur semplice della successione degli anni, delle generazioni e delle età contiene un'esperienza complessa e vera della dimensione temporale: la rende visibile anche se non è assimilabile alle forme della mente. Allora la grande mancanza che segna l'esistenza fuori del racconto è l'impossibilità del tempo: e si può affermare che solo il racconto rende possibile l'esperienza del tempo. Per questo è così attraente e saldo il legame di fiducia con ciò che si narra. Il racconto conserva il dono della vita, e i suoi furti. Poche volte il caso clinico è riuscito a tanto: spesso è stato un atto forzato e pavido, un resoconto, attraverso il quale si è voluto spiegare il racconto e la vita che vi scorreva. Così la penosa idea dell'«oggettività» avvelena da sempre la didattica psicoanalitica: maestro e allievo cercano un accordo sui termini della questione e, ahimè, lo trova204
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