tre il figliol prodigo si appresta a pagare il suo tributo alla generazione. La fiaba al servizio del pensiero filosofico. C'è una fiaba di Goethe, intitolata fiaba, in cui questa faccenda di dare e togliere la vita si rimbalza tra una figura anziana di «padre» e una fanciulla. La fanciulla accoglie inerte, senza fare gesto, che sa mortale, il giovane che le si getta tra le braccia. Ciò che la tocca (lei non tocca) viene pietrificato e poi offerto al vecchio che con la luce della sua lampada lo muti in pietre preziose. Lei a sua volta, che toglie la vita a ciò che ce l'ha e la immette in ciò che è inanimato, restituisce al giovane il movimento. Ma è un movimento finto. Lo sguardo del giovane resta fisso e privo di intelligenza. Anche qui c'è un finale. Il finale in cui tutto torna alla vita e all'amore. Ma Goethe combatte una battaglia con Schiller (la fiaba è destinata ad essere pubblicata sulla sua rivista) perché Schiller la pubblichi in due tempi, perché il finale sia isolato e non appartenga alla fiaba. «Ma i lettori nel frattempo si dimenticheranno della fiaba...» Non importa. «Ma il finale da solo non avrà alcun senso...» Meglio così. L'assenza del finale, è per questo che Goethe scrisse questa fiaba solo per Schiller e che, nelle sue intenzioni, essa doveva essere per lui un incitamento a distogliersi dal «pensiero filosofico» in cui andava perdendosi, e un invito a ritornare alla poesia. Allora forse c'è un'altra tecnica, per impadronirsi della tecnica, una tecnica che non sia legata al disprezzo di un padre violento e a un figlio che lo scimmiotta. Ma è quanto, appunto, vedremo una prossima volta. E tuttavia, direte voi, la storia dei Vezzi sta a provare il contrario, sulla sorte del vero figlio del vero artigiano. È possibile che un padre, orefice, affidi tutti i suoi affari a un figlio che impianta una propria originale attività di ceramista, e gli faccia già in vita donazione della parte 30
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