Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 70 - estate 1991

e naturalmente anche in deformazione della mimesi. La voce dell'attore è sempre articolata più esattamente del necessario, utilizza sfumature inmaggior quantità di quel che occorre distinguere nel suo dire, è più abbandonata o più tesa, più stridula o più dolce del suo eventuale modello mimetico; vi è in essa sempre un lavoro o un'intensità gratuita, tanto più grande ed evidente quanto più notevole è l'impegno o il talento dell'interprete; il corpo vi è impegnato in misura maggiore e la destinazione è più precisa; più forte è dunque l'appello che la voce è in grado di esercitare intorno a se stessa - o, se si preferisce utilizzare una terminologia semiotica, più esercitata ed efficace è la funzione fatica. Tale effetto di amplificazione «naturale» fa così parte della sostanza del lavoro teatrale, del resto, da aver provocato intorno all'amplificazione artificiale dei microfoni un dibattito fin troppo appassionato. Se usata con intenzione artistica, allamaniera di Carmelo Bene o di certe ricerche intorno al «parlare naturale»3 , infatti, l'amplificazione elettronica può sortire effetti sovversivi nei confronti della struttura stessa della convenzione teatrale, perché ne mette in discussione il fondamento tecnico e la specificità «organica» del legame voce-corpo. Quando invece - ed è la maggioranza dei casi - essa serve semplicemente a «far sentire» cioè a supplire a un difetto di forza o di precisione della voce naturale, non viene smascherata solo una debolezza «atletica» del bagaglio professionale, ma si degrada comunque, anche se involontariamente, l'altro effetto di amplificazione, quello qualitativo/energetico; e tutta la prestazione dell'attore risulta impoverita. Siamo arrivati a una conclusione abbastanza solida: la voce dell'attore, al di là della convenzione specifica cui egli obbedisce, per non parlare delle caratteristiche psicologiche e drammaturgiche del personaggio che egli è 151

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