trale, nella nostra tradizione è esattamente il passaggio di una scrittura alla voce, la pronuncia di una parola scritta1 • E dunque nella voce si incarna la natura linguistica del teatro, il suo impulso comunicativo, e in essa però allo stesso tempo si dà la sua menzogna. Infatti in circostanze normali la voce è il luogo in cui il linguaggio si crea. Come spiega efficacemente Merleau Ponty, nell'uso normale del linguaggio «il pensiero e l'espressione si costituiscono simultaneamente» nel linguaggio, non esiste normalmente un contenuto linguistico che preceda la sua esecuzione verbale, «dire non è mettere una parola sotto a ogni pensiero», ma al contrario «la parola va a tastoni intorno a una intenzione di significare che non si regola su un testo, e che appunto lo sta scrivendo». Sia vera o no questa analisi per tutti i territori dell'arte, cui Merleau Ponty vuole applicarla, essa è certamente vera del parlare comune, e certamente falsa del teatro. Se la voce è il segno della creazione/uso del linguaggio che caratterizza la comunicazione, nel teatro la sua situazione è esattamente rovesciata. Esiste un testo (sia pure un testo non verbale, una «partitura» gestuale, uno schema di improvvisazione di qualche tipo). Nel teatro classico e in buona parte di quello «sperimentale» questo testo preesistente è spesso considerato a sua volta un'opera d'arte venerabile, e il compito dell'attore è inteso come la sua «attualizzazione» o «realizzazione»: qualche cosa che Luigi Pirandello ha inteso come simile al lavoro del «traduttore» o dell'«illustratore». Altrove ho mostrato come tali modelli e gli altri analoghi che spesso sono stati proposti non reggano e come sia più conveniente pensare al lavoro dell'attore come a una forma di scrittura seconda, nel senso teorizzato da Derrida. Che però è molto lontana da quella scrittura prima che va «a tentoni intorno al testo» come la intende Merleau Ponty, proprio perché vuole imitarla. Anche nel teatro meno realista e più «spe147
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