Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 70 - estate 1991

più importante dell'attore italiano: un po' come se il grande modello nazionale del melodramma influenzasse sottilmente e piegasse alla sua orbita anche il settore meno privilegiato del nostro teatro, quella «prosa» che tutti potrebbero praticare senza saperlo comeMonsieur Jourdain, se non ci fosse anche qui un segreto della voce a distinguere il teatro dalla vita quotidiana. Ma proprio per questa sua centralità, la voce è per l'attore allo stesso tempo un possibile luogo di patologia, sofferenza e verità. Sempre nel teatro della tradizione, è ancora solo la voce che per un mito diffuso può tradire l'attore; è essa quella che, di tanto in tanto, lo riduce all'impotenza, gli sottrae la sua identità professionale perché gli impedisce di recitare, quando viene a mancare; oppure quella che semplicemente, per la qualità della sua stoffa, limita la sua possibilità interpretativa, ne fa un caratterista piuttosto che un primattore, o magari un soggetto da cinema o da microfono, perché il suo strumento non lo sostiene abbastanza. E la voce, appena si esce dal teatro della tradizione, rivela la persona dietro il personaggio, tradisce l'uomo o forse lo esalta: certo crea un varco nella convenzione teatrale. La voce è così grido, addirittura gemito da moribondo (Roy Hart), corpo vivo (Jerzy Grotowski), gesto o meglio azione concreta (Eugenio Barba), canto che bisognasaper riconoscere (Vittorio Gassmann). La voce umana di Cocteau è dolore, silenzio, affanno, solitudine - detti però secondo le convenzioni del teatro. Tutto questo confuso intreccio di intenzioni e percezioni non è borbottio senza senso, ma mitologia efficace. La voce è infatti sempre il luogo di congiunzione del corpo col linguaggio, ma nel teatro questa è il solo modo in cui il linguaggio veramente è: sia questo il segno del primato del1'oralità secondo Saussure, o solo la conseguenza del fatto che la rappresentazione, cioè lo specifico del fatto tea146

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