razione del discorso represso, che parla il meraviglioso «mais» («ma») del paragrafo, uno dei tanti che costellano gli enunciati dei romanzi di Stendhal, con funzioni affini, e che non hanno riscontro, salvo errore, in nessun altro autore. Così, per Stendhal, potremo parlare di una enunciazione derealizzante di tipo dialogico a struttura comunicativa impedita e, al limite, non comunicante. Una variante della quale, su cui chiuderò questa comunicazione (che spero comunicante), è quella rappresentata da Svevo. La posizione derealizzante di cui attesta la narrativa di Svevo (soprattutto nei due romanzi maggiori, Senilità e La coscienza di Zeno) è determinata dalla parola autodialogante del monologo del Soggetto-protagonista, cui non corrisponde nessuna istanza enunciativa di base. Si tratta di uno straordinario dispositivo semiotico, per cui l'istanza di enunciazione originaria viene abolita (è postulata come abolita), mentre al suo posto si installa - in forme e modi del tutto eccezionali che ricompariranno, portati all'estremo, solo in Beckett -quella che designerei come una immensa «zona d'ascolto», cui è riservato il compito di registrare, in silenzio, l'ininterrotta parola esteriore del soggetto: Zeno, nella Coscienza, il quale parla (scrive) in prima persona; Emilio Brentani in Senilità, il quale si esprime alla terza e si troverebbe perciò al di fuori della situazione specifica del monologo. In realtà, il testo di Senilità è passibile, proprio per l'assenza (simulata) della voce narrativa, di venire interamente trascritto alla prima persona. I rarissimi luoghi ascrivibili all'Enunciatore sono semplicemente del genere connettivo, riguardano le modalità di transizione fra i vari blocchi del ra�conto. E qualora si diano punti di riflessione d'ordine generalizzante, ebbene essi rivestono altrettante forme di discorso indiretto libero, da attribuire al protagonista. Un esempio (è l'attacco del cap. XIV): «L'immagine dellamor139
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