la sua volontà; il lavoro riesce come può, e spesso si pone dinanzi all'autore come cosa indipendente, persino estranea.4 L'autore, questa «voce» capace, parlando di sé, di evocare un processo d'insieme- quello che costituisce la scoperta dell'inconscio e la rappresentazione del soggetto che da essa deriva; in grado di dire, senza nostalgia né rimpianto, quale sia il destino ordinario dell'opera; nata da lui - ma a quale prezzo?-, essa è votata all'indipendenza, destinata a presentarsi nel segno dell'estraneità, intimando in qualche modo all'autore- per quanto gli è possibile e lo giudica necessario - di chiarire ciò che ne sa. Spetta sempre all'autore decidere- e la cosa è importante tanto per il lettore futuro quanto per l'oggetto in questione- se deve o meno ritornare a cancellare le tracce del lavoro anteriore. Strana strategia (nota e ignota) delle prefazioni, delle postfazioni, delle edizioni successive, delle riscritture, dove l'autore cerca di affermare, di suggerire, i suoi diritti e i suoi doveri nei confronti dell'opera. Il lettore la intende con il suo orecchio, e tanto più se ha qualche desiderio, attraverso la lettura, di diventare a sua volta autore. Freud, in quanto autore, concentra la sua attenzione su questo genere di avvenimenti e li costituisce addirittura come luoghi specifici di esperienza. Se l'opera espatria, si mantiene a distanza da me, mi ritorna in una forma straniera, può essere un'occasione per me, l'autore supposto, di manifestare la mia propria dipendenza e la mia eventuale autonomia; il che può essere un'altra maniera di descrivere la necessaria oscillazione fra l'essere-soggetto e la condizione d'autore. Io mi inscrivo nella mia opera misurando il rischio di un simile gesto. Quanto all'avvenire, non ho niente da dirne, se non qualcosa come: talle, ·zege. Ma già l'opera, nel suo necessario distacco, parla per me, mostra l'impossibile posto che ho tentato di occupare. Jean-Michel Rey 215
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