tività specifica del suo corrispondente). Pertanto: o un autore mette in atto ciò che ha scoperto da sé - e, in parte, in sé - per indicare a un altro (che egli ha letto) quel che li avvicina, per contrassegnare un terreno comune, osando istituire il suo corrispondente (a titolo privato) come un altro, un autore prossimo, familiare, partecipe della sua economia, al quale, dunque, si sente autorizzato a dare il nome comune di «doppio» (usando d'altronde un rafforzativo: Doppelgèingererscheu); evocando quella cosa tortuosa, particolarmente feconda, che la letteratura (segnatamente quella del XIX secolo) ha ampiamente utilizzato. Fra due autori un doppio ha qualche possibilità di potersi confrontare: i testi parlano da sé, testimoniano con la loro data, possono all'occorrenza costituire una prova irrefutabile. Nessun bisogno di una qualsiasi socialità, né a fortiori di quel che ne costituisce il principio, una identificazione: è sufficiente leggere, andare al di là delle apparenze. Profondità di sempre della letteratura che, senza necessariamente saperlo, senza doverlo formulare o esplicitare, lancia delle passerelle, apre su un altrove, è presa in un processo interminabile di allegoria. Oppure: un autore abitato da un desiderio fondamentale di esplicitazione (sotto il nome di «interpretazione»: con tutto il rispetto dovuto a ciò che vi si trova sotteso) parla a un altro dell'affinità del loro percorso e delle loro preoccupazioni, trae da questi accostamenti un modo di qualificare il suo interlocutore; e, senza dubbio anche, senza dirlo, di qualificare se stesso, approfittando del sotterfugio della corrispondenza. Un autore si scopre, dunque, sollecitato da una identità di vedute, obbligato - ma da chi? da che cosa? - a esporre all'altro quel che rappresenta ai suoi occhi. (L'evitamento come forma di omaggio, l'astensione come segno di riconoscimento: è evidente che non siamo più nel campo della psicologia). La cosa, d'altra parte, non è del tutto nuova per lui: se non per il 205
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