na di Ulrike, in cui si condensano le ragioni della casata Kleist e un'indicibile peculiarità, come nell'indecidibilità tra nome proprio e nome comune in cui si dibatte il conte Wetter vom Strahl con la Kathchen von Heilbronn: «Oh tu... come chiamarti? [...] Perché non posso dirti mia? Kathchen, bambina, Kathchen! [Kathchen, Miidchen, Kiithchen!] »8 • Ulrike (Ulrikchen, Rikchen, come viene chiamata nelle lettere) è analogamente coinvolta, per Kleist, in un gioco di identificazioni in cui «proprio» e «genere» si confondono, in cui si stratificano l'ansia di legittimazione che Kleist viene provando nei confronti del blasone familiare e l'impulso di complicità, di comunicazione privilegiata che filtra in modo trasparente dal carteggio. Ulrike incarna agli occhi di Heinrich l'autorità dell'istanza paterna, il prestigio di una stirpe improntata da sempre al rigore militare: un progenitore di Kleist, Ewald von Kleist, «anima virilmente malinconica»9 , fu ufficiale prussiano e poeta, ed entrò nella storia letteraria tedesca come il primo poeta cui incolse «la bella morte delle battaglie», per usare un'espressione di Kleist stesso nei suoi primi proponimenti di suicidio. Junker fallito, corpo estraneo in questa casata, Heinrich riversa fatalmente la panoplia degli onori e delle decorazioni militari nell'ossessione della gloria letteraria, tanto da procrastinare il suo ritorno a casa fino al momento in cui avesse conquistato l'alloro, lo stesso che cinge, in sogno, il principe di Homburg. Ulrike è avvertita contraddittoriamente come complice e giudice di questa impresa, al punto che, dopo il fallimento della «grande tragedia», il Guiscardo, data alle fiamme, Heinrich giunge a scriverle: «non posso mostrarmi degno della tua amicizia, non posso vivere però senza questa amicizia: vado in cerca della morte»10 . 2. Kleist aveva cercato complicità fraterna, con Ulrike, 47
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