la morte, la perdita: «ho bisogno di tutta la Will to Believe di cui sono capace per resistere a questo colpo opprimente, e vedere oltre questa impenetrabile nebbia», gli scriveva due settimane dopo la scomparsa di sua moglie Marie (4 settembre 1909). Che il nostro piccolo self debba accettare i propri limiti e l'impotenza che la vita dolorosamente gli dimostra era altra lezione della quale entrambi avevano vissuta consapevolezza, e che James aveva trattato nei suoi saggi con la capacità rara, gli riconosceva Flournoy, di «veramente capire la psicologia e la filosofia e di usarle davvero per il bene degli altri» (27 marzo 1898). Se nelle difficoltà profonde, «il carattere eroico e stoico» di William pareva trovare una rassegnazione calma, invece «per nature deboli e mezze fallite come me... affrontare la vita è cosa difficile», si confidava Flournoy. Per entrambi, comunque, il migliore soccorso sarebbe stato una «fede nel futuro che rende all'anima la serenità e la forza intima per vivere». Persino la fede però, quando non sia un dono, «richiede incessante sforzo, un perpetuo rinnovarsi di decisioni interiori che sono tremendamente impegnative. Ma non è l'autore di The Will to Believe che ha bisogno di notare queste elementari banalità» (18 aprile 1910). Il riconoscimento del potere vitale che la religione fornisce a chi è credente aveva spinto entrambi nello stesso periodo a studiare non solo spiritismo, ma anche conversioni, miracoli, estasi: una svariata fenomenologia della psiche mistica che il filosofo americano considerava A study in Human Nature, come precisò nel titolo della raccolta sulle varietà dell'esperienza religiosa (1909). Fu questa l'opera che Flournoy senza dubbio amò più di ogni altra, anche se parlando pubblicamente di James, lui scomparso, sminuì la tensione interiore che l'autore aveva vissuto drammaticamente, tra il bisogno di credere e il mancato appagamento. Non aveva mai posseduto una fede religiosa come hanno i credenti, il «senso vitale di 149
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