Away (1965) a quella di Pour finir encore (1975). Il luogo del "chi dice" (ove l'immaginazione va immaginata morta) è in queste prose allestito senza dubbi come il luogo del depositario del calcolo, anonimo e collettivo, che si fa garante del massimo di non-partecipazione a ciò che è calcolato. Nella sua forma tangibile, pertanto, il procedere narrativo si lacera, fino a divenire statutariamente franto e, dunque, ricompattabile solo in virtù di giustapposizioni («l'art de combiner ou combinatoire»). È questo un processo di scarnificazione atto più che altro a fare il vuoto intorno all'autore: insipiente e impotente, già relegato nella propria betise, ridottagli infine il luogo del "chi dice" in quello di "chi esegue il calcolo", l'autore sortito da quello che potrebbe, scherzosamente, definirsi il «restringimento beckettiano», ritorna ad un'elementare identità di fattore, al contempo liberandosi della messa in crisi della verificabilità. Da tale processo sortiscono, di conseguenza, da un lato il sempre più massiccio ritorno all'inglese dell'ultima produzione di Samuel Beckett (un inglese liberato dall'ossessione del maestro) e dall'altro l'indistinguersi dei generi in precedenza canonicamente perseguiti dallo scrittore di Foxroch. Fra versi (Mirlitonnades, Long After Chamfort), monologhi teatrali cadenzati in versicoli (Rockaby, What Where) e romanzi quintessenziali (Company, Mal vu mal dit, Worstward Ho), l'indistinzione tipologica diviene nell'ultima produzione beckettiana essa stessa tipologia: ai generi si sostituisce un unico principio formale in cui, come nel procedere poetico così com'è stato descritto a inizio di quest'intervento, tutto si deve all'armonizzazione, cioè ad un filtro autoriale dato immediatamente senza l'inganno dell'adesione ai fatti. Ciò, si badi bene, non vuol dire che l'opera di Samuel Beckett abbia subito una, diciamo, metastasi poetica, quanto piuttosto che essa ha ricondotto il procedere narrativo ad una scelta stilistica, intendendo per stile l'elezione del narrabile e 216
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