Il piccolo Hans - anno XVI - n. 61 - primavera 1989

non c'era più una proiezione futura, il presente era dimenticato e il passato aveva tutto il tempo e lo spazio per riaffiorare come l'unica forma di realtà possibile. Un passato più lontano aveva la meglio su di un passato più recente, perché in una cera molle era stato più facile imprimere il segno di una chiave. Anche i ricordi potevano essere semplicemente visti, o guardati. Il sentire provocava metafore figurate nel sonno: sogni che attingevano anche ai ricordi. Si sognava poco o molto proporzionalmente a quello che veniva o non veniva vissuto detto, pensato e rivelato. Prima e dopo il risveglio molti sogni andavano perduti. Altri non sognavano quasi mai perché sognavano ad occhi aperti, da svegli. Queste immagini erano più reali del reale, scaturivano da un profondo terribile dolore. Quelle di morte e di vendetta erano fisse e persistenti per giorni e mesi, altre scorrevano in un racconto che poteva essere dolcissimo e che pareva non avere mai fine. Tutte colmavano il vuoto di quello che avevamo avuto, perduto o che non avevamo mai avuto. Dove era la casa sulla collina, dove la tenda nel deserto? Da dove venivano insieme alle paglie intrecciate da piccole mani, gli argenti? Chi era la grande figura vestita di nero dal volto nascosto che portava per mano un bambino? Come si potevano già conoscere le precise tecniche di difesa che rendevano il castello (otto lati con otto torri di otto lati) inespugnabile? Quando sarebbe arrivato il ragazzo? Come era facile maneggiare il pugnale che apriva di un colpo il ventre del nemico o manovrare la vela della barca che sembrava portasse invece di essere portata. Quando la mente era troppo affollata dalle parole, quelle proprie o quelle degli altri non c'era che uno spazio 203

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