porto con i miei figli. Forse il fatto _che molte idee che avevo sull'educazione non abbiano avuto i risultati che speravo, ha contribuito a convincermi che esisteva qualcosa di più profondo, l'inconscio, che doveva essere analizzato per arrivare a modificare quella che si presentava come difficoltà per i bambini.» Il sapere inconscio diventa così «sapere dell'inconscio» e in quanto tale teoria. L'assenza del luogo dello scarto, del presque, ha condotto Melanie Klein a un gavage interpretativo in cui il riferimento teorico a priori sembra aver prevalso sulla disponibilità d'ascolto. Una teoria che poco ha conservato di non misurabile al termostato e che si è posta come fautrice di un linguaggio prodotto in superficie dal gergo psichiatrico del Policlinico di Berlino e nella sostanza poggiante sull'identificazione e il raddoppiamento. Qualcosa di spaziale evidentemente non ha funzionato. Forse, nella costruzione, si è saltato un passaggio come se nella corsa a staffetta gli atleti «distratti» si fossero dimenticati proprio il passaggio del testimone. Sicuramente Melanie Klein nel suo fare teoria non ha avuto testimone, almeno non nell'accezione di questo termine rivisitato da Finzi47 • «Quando ho bruscamente terminato la mia analisi con Abraham, molte cose non erano state analizzate - conferma Klein - e ho continuato ad approfondire le domande concernenti le ragioni delle mie angoscie e delle mie difese da sola[...] eppure nonostante il mio carattere scettico e disincantato non ho mai disperato, neppure oggi». «Imperi effimeri» Nel '41, a Pitlochry, Klein aveva analizzato Richard, il bambino che disegnava imperi, e gli anni successivi costituiranno per l'autrice un continuo ripensamento dell'esperienza, un continuo tentativo di rendere il pensiero teoria. In questo frattempo, Bion si stava sottoponendo 215
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==