Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

Vocalis Orpheus, o il «parlar materno» Il «fabbro del parlar materno» che è il poeta parla una lingua fatta di vocali: l'etimologia dantesca di autore non da auctor ma da autor, e dunque da avieo (a-u-ie-o, lego) raccoglie le vocali in un verbo che dice insieme la composizione, il canto, l'appartenenza alla lingua come madre e alla lingua della madre. Il «parlar materno» del poeta dice la sua distanza dalla sintassi dei discorsi disciplinari, e avvia la sua lettura del mondo a partire da una lingua i cui suoni sfumano verso il canto, sono vincolati al ritmo più che al sapere. Dai musici vocales addetti alle variazioni dei tropi verso il trobar dei poeti: la lingua della poesia intraprende il cammino d'una mimesis per la quale la voce animale e lo stormire, il risuonare della terra e le «confuses paroles» della natura abitano la parola poetica e in essa aprono il varco verso l'indicibile e l'invisibile. È questa mimesis che trattiene la lingua poetica dal dissolvimento nella babele e dalla complicità con quella lingua priva d'armonia che è l'odierna opera di distruzione della natura. Nella lingua del poeta, per il quale la convinzione che il linguaggio è tutto s'accompagna allo scintillio della parola inutile, la necessità dell'immagine alla sua vanità, nella lingua del poeta il ritmo è il riverbero d'un sogno musicale, d'un'oltrelingua, che il respiro delle vocali alimenta. Ma anche sulla terra propria del musicale («dove finisce la lingua, comincia il musicale», scriveva Kierkegaard in Enten-Eller), la melodia è, in sede romantica, imitazione della voce delle passioni, anzi, per riferirci a un passaggio di Rousseau (Essai sur l'origine des langues), la melodia esprime «tous les signes vocaux des passions». Vocalità della poesia e vocalità della musica ripetono, nel loro rispondersi, l'antico intreccio di élogos e mélos: ancora, tracce dell'origine. 234

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