trattiene ogni lingua dall'identificazione con la presenza, dalla sovrapposizione temporale e spaziale alla cosa. Questa lingua, in cui il presente (tolgo la definizione al Compendio di grammatica ebraica di Spinoza) è considerato come un punto, cioè la fine del passato e l'inizio del futuro, è lingua del passaggio, lingua, appunto, del viandante: nell'assenza del segno vocalico, come nella disarticolazione del tempo presente, è possibile vedere il passaggio verso l'Altro, l'invocazione dell'Altro? (in questa direzione, qui solo allusa, s'inoltra, non senza astratte arditezze, un saggio di Catherine Charlier, Figures du feminin. Lecture de Lévinas). «La nostra anima è un nido di vocali» «La nostra anima è un nido di vocali. C'è un uccello all'origine della infinita lettura del mondo, diceva ancora». Così la voce d'un rabbino immaginario in un frammento del Libro della sowersione non sospetta, di Jabès. La scrittura di Jabès, tra le cui sospensioni trascorrono silenzi di sabbie senza miraggi, parole ferite nel senso, nomi consegnati al nulla che li fa splendere e morire, è la pronuncia di una voce che dialoga con l'impensato - parte invisibile della lettera - e con l'indicibile - vuoto nel quale il pensiero trova il suo respiro; dialoga insomma con quella Parola che è la più vuota del vocabolario, «talmente vuota che l'universo dell'uomo e l'infinito della sua anima vi posson trovare, 1n ogni istante, posto». Una meditazione in cui la lettera è erosa, scrostata della storia che i saperi vi hanno deposto, resa trasparente dal vuoto che come alabastro la sostiene e forma, dissolta nel silenzio che la precede e nel canto che la accoglie, nel Libro mai concluso e nell'interrogazione interminabile che la vanifica. A proposito di questa Parola, 229
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